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LA CANZONE GENOVESE

 

Articolo a firma Mario Oliveri, pubblicato sul bollettino n° 2 - maggio 1928

 

Un pomeriggio primaverile, od estivo, o autunnale, a piacimento del lettore. Una viuzza – una “creuza” – inerpicantesi per la collina grigia di ulivi incipriati, chiusa tra muri dal vecchio intonaco, coronati da cocci di vetro scintillanti al sole.

Al di là, tra le “fasce”, qualche casa rustica, celante in un manto di edera la propria umiltà per non urtare la pretenziosa chiassosità di un gruppo di costruzioni moderne, o la solenne imponenza di una villa signorile adagiata nel verde cupo del parco,

La viuzza, che davanti all’ampio cancello ha sostato perdendosi in uno spiazzo più vasto, riprende a salire in volute più ripide. Incrocia altre “crose” dal rosso mattonato; pare si soffermi e voglia ad esse chiedere quante coppie di innamorati son passate di lì e quante ne passeranno ancora fino a sera; poi riprende la sua corsa, fatta ora di gradini corrosi e punteggiata da ciuffi d’erbe, fino a che ad una ennesima svolta si arresta, bruscamente tagliata dall’ampio nastro di una modernissima consorella maggiore, tutta superba del suo traffico polveroso.

La piccola “crosa”, quasi spaurita, ripiega, degradando a serpe tra il fosco di un cipresseto, finché, libera ora dai due muri, segue il solco di un’ortaglia a ridosso di un torrentello e, valicato un breve arco romano, dilaga in una radura solatia.

In alto incombe il Fasce, sulla cui cima le nubi fuggendo hanno lasciato una sfilacciatura di bambagia; a sinistra Apparizione e i Camaldoli conversano fra loro coi molteplici eliografi delle finestre luccicanti; a destra, in fondo, Portofino ruba l’azzurro del mare e del cielo per rendere meno fosca la sua grigia mole.

Nella radura un gruppo di case addossate a una piccola macchia di platani e di quercie, su cui palpita al vento una gala multicolore. La croce rossa di San Giorgio folgora un’enorme bandiera bianca, svettante sopra una caratteristica “téuppia” coperta di vite e di rampicanti a protezione di un vasto giuoco da boccie.

Si chiamerà l’osteria “do Fran a-o Ponte”, o “do Luigin a San Giêumo”, o “da Bice in Cianderlin”, o di “Paolotti”, o di “Töi“, o de “Gheixe”, o da “Fratellansa”... Poco importa la denominazione; siamo in una delle numerose osterie sparse per “le propinque ville” della vecchia e della Grande Genova, dove l’oste e, meglio, l’ostessa, le figlie e le serventi propinano alla clientela domenicale “gotti” e sorrisi.

Sia essa la

“...ostaietta pe’ Cianderlin,

ch’a pà despèrsa fra i giàsemin...”

cantata dall’amico Carbone, o sia quella

“... bèttoa coverta de ramme...”

che il poeta Malinverni cercava ai suoi tempi “in sci terrapin“, ora scomparsi per opera dei prosaici piani regolatori, il colore locale non muta.

Molta folla, in prevalenza uomini, ha invaso i “giochi”, dove... non si gioca; si preme e si pigia attorno ai rustici tavoli, dove tra uno scintillio di bicchieri s’erge un piccolo trofeo floreale. Seduti sugli sgabelli altri uomini – viso da marinaio, piglio da carrettiere, “grinta” da scaricatore, sguardo adusato a tutte le rudezze de “la vie au grand air” – i quali tra un sorso e l’altro ridono, parlottano, motteggiano rumorosamente.

Ma ecco che il parlottare si estingue; la folla attorno si acqueta con un’ultima ondulazione; dalle finestre soprastanti, dalla cancellata, dal poggiolo si affacciano visi freschi di donne intenti.

Anche l’oste domina colla propria persona autoritaria il rettangolo di accesso al suo regno.

I dieci uomini del tavolo si sono alzati - un ritardatario tracanna l’ultimo sorso di rubino - un cenno, un rapido incrociare di occhiate e tosto un canto si eleva, poggiato su note gravi, finché uno svolazzio di “contralto”, rincorso da una voce tenorile dà il tema, immediatamente commentato dai baritoni e ritmato dai bassi possenti.

Ora tutta la prodigiosa orchestra è in voce e l’onda sonora corre dalle smorzature al fortissimo con un andamento baldanzoso e irruente, picchiato dagli ultimi squilli del contralto, che incita il “primo” all’attacco del “refrain”.

I tempi si accelerano, si inseguono, sospinti dai suoni gravi e dal sapiente arpeggio di una voce chiusa – il “chitara” – che governa il ritmo travolgente.

Breve sosta; bisbiglio di ammirazione nella folla, fatta ora più attenta per la ripresa della seconda strofa.

Qui il “refrain” ha un portamento più deciso; le voci escono dalle gole più calde e più fuse; non sono dieci cantori: è un solo mirabile strumento che lancia al sole l’inno di gioia e di baldanza con un finale di note sopracute, coperte dallo scroscio impetuoso degli applausi.

L’esaltazione della folla è al più alto diapason; visi rossi, occhi lucidi, gridi incomposti di “evviva” e di “bravi”; eppoi ancora applausi e tinnir di bicchieri...

  

Una nota personalità politica, in una sua recente visita alla nostra città, ebbe a dire che il popolo genovese, rude lavoratore e silenzioso curatore di traffici, “non ama il canto”.

Vorrei chiedere in prestito l’erudizione dell’amico Rimassa per poter dimostrare come fin da tempi remotissimi, quando le nostre navi rosso-crociate correvano trionfali tutti i mari allora conosciuti, nelle lunghe calme della navigazione, o nelle ancor più lunghe soste nei porti levantini, i marinai liguri affidavano al canto la nostalgia della propria terra e le audaci imprese della propria razza.

E quei canti, nati sotto le stelle, o dopo l’ansito periglioso di una bufera, o dopo l’urto vittorioso di una battaglia, si diffondevano in lontani lidi, preda gradita di altra gente, che nelle voci dei liguri trovava la prima cellula, l’embrione, di una propria tradizione canora.

Lascio questa, che potrà forse essere gentile leggenda, e torno ai “cantori” di oggi.

Se l’illustre uomo politico in uno dei pomeriggi festivi si trovasse ad assistere ad una qualsiasi delle molte esibizioni delle nostre “squadre” impropriamente dette di “bel canto”, rallegranti le sagre delle nostre vallate, ritratterebbe senza dubbio la sua affermazione; poiché difficilmente in altra regione troverebbe cultori più appassionati del canto, inteso come spontanea manifestazione collettiva, polifonica, dell’anima veramente popolare.

E qui occorre subito precisare; parlo di “cantori” e non di “canzoni” genovesi, per non tentare nemmeno lontanamente di usurpare la benché minima particella di quella che è tradizione consacrata e indiscussa della terra Partenopea, anche se da qualche anno la canzone napoletana va imbastardendo la peculiare melodia della sua anima coi ritmi sincopati delle “trepidanti” musiche (?) d’oltremare!

Da noi esiste la tradizione canora in quanto che il nostro popolo canta le canzoni che sbocciano altrove.

Non esiste, dirò così, la “produzione”. Né sono finora sufficienti a contraddire la mia asserzione i troppo rari, anche se fortunati, tentativi di qualche nostro poeta o musico e dell’unico interprete genovese, re pregevolissimo di un... regno incontrastato perché inesistente.

Valga questo mio sfogo, molto obbiettivo del resto, d’incitamento a chi sente vibrare nei propri precordi l’ispirazione al verso e al canto nostrani; si moltiplichino questi e quelli e il sullodato sovrano abbia per lo meno una numerosa corona di principi ereditari!...

 

Il Genovese ha caratteri spiccatamente diversi dal napoletano. Non possiamo immaginare un “Bacciccin” “co-a chitarra e a luna”, che “chiagne e canta” sotto “a fenesta d’a riggína” del suo cuore.

Per poco che sostasse, la finestra si spalancherebbe per mandare l’immalinconito amatore a farsi... benedire, quando non lo benedicesse direttamente una provvida rovesciata di catino.

Genovese è il marinaio o il pescatore, o il barcaiuolo, che nella rudezza del proprio mestiere, nella lotta diuturna cogli elementi, non ha tempo da perdere...

“...so’ stato tantu tiempo mieze a’ via... t’aggiu chiamata e tu non si’ venute...”

Il Genovese non sosta; se la sua “Marinin” non giunge, vuol dire che ha da fare anche lei, magari “e trenette cö pesto”!...

Genovese è il cacciatore, geloso più del suo fucile e del suo cane che della legittima consorte.

Un po’ spaccone, come tutti i seguaci di Nembrotte [personaggio biblico, “forte cacciatore innanzi al Signore”, n.d.r.], divoratore di sentieri e di montagne, lo troverete, sul mezzogiorno, assiso con amici di “scagno” o di borsa al tavolo di un’osterietta, in atto di far onore ad un’abbondante fondina “de tiòu sciù sciúto”. Né i folgoranti occhi della bella servotta varranno a fargli rompere la gradevole fatica.

Una guardata, un complimento, magari “un spellinsigon” dove mi so io, per convincerlo della possibilità di accendervi “i brichetti”, ma niente “suspire”, niente “chiagnere pe’ tè!”... Oíbò “E ce l’hai testa?...”.

Genovese è il bocciofilo, che conosce tutti i sassi, tutti i paracarri, tutti i buchi, tutti i ciuffi d’erba dello Zerbino meglio di casa sua. Potrebbe giocare a occhi chiusi. Sente “o ballin” all’olfatto. “In camixetta” state e inverno, a capo nudo, o tutt’al più coperto da un fazzoletto di lino coi quattro nodi agli angoli. Maniche della camicia – finissima – rimboccate; scarpe collo “scroscio”.

Ve l’immaginate questo ipotetico “sciö Parodi” interrompere la partita per imbracciare la chitarra o il mandolino e chiedere belando a un’ancor più ipotetica “sciä Genia”

“...si pienze ancora a me...”

sarebbe preso a bocciate “in to coppusso!”.

 

I Cantori Genovesi hanno un po’ dell’uno e dell’altro dei tipi sopradescritti e di altri consimili.

Allegri, buoni, fanciulli nell’anima. Gente che con un pugno potrebbe atterrare un toro, si intenerisce alla vista di un bimbo in lagrime.

Lavoratori indefessi hanno sulle spalle il peso di chissà quanti quintali imbarcati o sbarcati nella giornata; rubano le ore del riposo per trovarsi alla sera e “studiare” le ultime novità. Domenica c’è un “convegno” o “una gara” di “bel canto”. Occorre affilare le... ugole.

E obbediscono agli ordini di un loro capo spontaneamente riconosciuto, colla medesima disciplina con cui obbedirebbero al capo-stiva, o al capo-caravana, o “a-o prinçipà” nella fatica del giorno,

Si guardano negli occhi l’un l’altro. Il “contralto” fissa il “primo”, i bassi guardano il baritono; il “chitarra” non guarda; pensa. A cosa pensa? Forse ai dispiaceri di casa sua, ai molti figli da mantenere, al recente infortunio che gli ha fracassato “o gosso in sciä caladda”?... Tutt’altro! Pensa ai tempi, non ai tempi “grammi” dell’oggi, e modula i ritmi in modo tale da dar dei punti al più provetto tempista.

E il canto, indipendentemente da ogni formula scolastica, ma con profonde caratteristiche di ritmi tradizionali e inalterati – i così detti “Trallalero” di origine antichissima – sgorga dal più perfetto “armonium” umano.

 

Non è forse ancora un anno l’occasione volle che ascoltassi per la prima volta un “convegno” di squadre. Ne rimasi subito ammirato. Ogni squadra volta per volta saliva sul palco – una specie di “ring”, senza pugni e senza spugne. Caso mai queste ultime potevano essere simboliche a volerle mettere in relazione colle numerose bottiglie di vino, che alla loro volta facevano il loro bravo convegno sul tavolo di centro.

Si cantavano tutte canzoni, o meglio, canzonette in voga: “Faro Blu”, “Creola”, “Tango delle Rose”, eccetera,

Ad un certo momento si attacca “Pescatore a Pusilleco”. In dialetto napoletano! e da genovesi, ma genovesi autentici!!

Pensavo: se vi sentono i Piedigrottai, vi accoppano!

Un’altra squadra, non so dove, ricordo ebbe a cantare:

“.. Ah! com’è bella la staglione... “!!

Quella “staglione”, anche se bella, non potei digerirla.

Era con me l’amico Magnone, il tanto noto e popolare “compagno”, uno dei fondatori della nostra associazione. Gli dissi:

– Senta, sciö Gaitan, che proprio siano i nostri genovesi a voler cantare in un dialetto che fa “a casci e pugni” col “ciù bello parlâ do mondo”?...

– Ma se son dieci anni che predico la stessa storia!...

– Vuole che le faccia conoscere chi potrebbe scrivere per questi baldi cantori qualcosa di più aderente alla nostra razza?...

E ho scovato fuori un altro amico, anzi un amicone: il Ferrari. Breve: sono venute alla luce “Ata o bassa d’Arvi l’é Pasqua”, “Mazzo”, “Campann-e de Pasqua”, “E terrasse de Zena”, “San Giambattista”, tutte su parole del compianto Malinverni, cui il Ferrari era legato da profonda amicizia, e quella deliziosa “Ostaietta in Cianderlin” già nominata, canzoni che corrono ormai sulle bocche di tutti e sui dischi del fonografo, che le ha lanciate “a-i Zeneìxi” delle Americhe.

La squadra che prima le ha divulgate è quella conosciutissima di San Martino d’Albaro, capitanata dal noto Fran.

Non per oscurare tutte le altre numerose e valenti, ma per essere stata la sola squadra a rispondere all’appello lanciato dalla Commissione del Cerimoniale della “Compagna” per volontà del suo vice-presidente, il prefato Magnone, intendo da queste colonne mandare, a nome dei “Compagni” tutti, il più fervido plauso ai bravi quanto modesti cantori di San Martino e il più caloroso incitamento a proseguire per la bella via intrapresa.

Altre squadre la seguiranno; pregevolissime ed encomiabilissime anche loro.

Quando tra qualche anno potrà avvenire che in una delle molte gare, che è da augurarsi siano svolte con serietà di intenti e con garanzia di giudizio, la “canzone d’obbligo”, anziché essere la vieta “Partenza da Parigi”, o “Passa la ronda”, o “Rosignolo”, sia una canzone genovese di dialetto e di sentimento, lo spirito implacabile del simpatico Magnone sarà acquietato, e non solamente il suo.

 

Era mestieri che tutte le nostre briose squadre della Liguria fossero accomunate in una forma associativa, che, lasciando loro ogni libertà di consuetudini, valesse a tutelarne quella caratteristica forma di arte popolare, salvaguardando il patrimonio delle nostre tradizioni canore.

La “Compagna” saggiamente ha provvisto e ha patrocinato il nascere della fiorente “Unione Ligure Squadre di Canto Popolare”, aderente all’O. N. D., alla quale Unione sono con entusiasmo accorse le più valenti squadre nominate nel primo numero di questa Rivista. [vedi riquadro più sotto, n.d.r.]

Altre ne verranno e altre ne stanno sorgendo di nuova formazione. È tutta una fioritura di “convegni” che settimanalmente si succedono, con interessamento sempre maggiore.

Ora non soltanto relegati nelle osterie, i Cantori nostri possono ben affrontare altri pubblici e salire altre pedane.

Le ultime manifestazioni testé avvenute e quelle altre che si succederanno confermano il mio dire.

Allo stesso modo che altre melodie ed altre canzoni e la riesumazione dei più antichi “Trallalero” possono dai forti petti dei nostri Genovesi far sentire la vera anima di questo popolo rude, sì, lavoratore, sì, ma essenzialmente buono e generoso.

_______________

 

Filiberto Scarpelli, il geniale artista della caricatura, amante com’è di ogni manifestazione folkloristíca, trovandosi di passaggio a Genova ha voluto assistere ad una prova della squadra di canto di S. Martino d’Albaro, e ne ha profittato per ritrarre con la sua magica matita, le sembianze dei singoli componenti.

Siamo lieti pertanto di offrire ai nostri lettori, nell’articolo del nostro egregio collaboratore avv. Mario Oliveri, i disegni che l’eminente artista romano ha eseguito per la nostra rivista. 

 

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FOLKLORISMO DI LIGURIA

La canzone genovese

 

Articolo a firma Carlo Otto Guglielmino, pubblicato sul bollettino n° 4 - luglio 1928

 

Buona semente, questa, che il seminatore gettò in campo di Liguria – terreno che a detta dei bene informati è aridissimo – e che diede un raccolto rigoglioso, copioso e magnifico, per dirla con un aggettivo generico.

Come sia nata, cresciuta. e prosperata è da tutti saputo. Portata al battesimo al Giardino d’Italia, ebbe per padrini due tenori: G. Comite e M. Cappello. Le madrine, una bimba appena allora dodicenne: Bebè Bosco e Luciana Doria, che presentò al pubblico la neonata.

 

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LA PRIMA FESTA DELLA “CANZONE GENOVESE” – GLI INTERPRETI

 

Si era allora nel gennaio del ’25. È risaputo che in tre anni la canzone genovese varcò mari e monti italiani ed esteri. Fu a Trieste, fu a Berlino, fu a Buenos Ayres, dopo avere sgambettato per la Liguria, per il Piemonte, per la Lombardia e la Toscana.

Alimentarono la primissima fiammella, accesa entusiasticamente da Costanzo Carbone, i poeti Raffaello Cogorno, E. R. Calvetti e il melodista Mario Cappello; i compositori Attilio Margutti, Aldo Crotto, Carlo Niccolò, L. Ambrosano, G. Sivori. Pian piano la cerchia si estese. Verseggiatori ne vennero fuori a dozzine.

 

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A sinistra il tenore CAPPELLO, il poeta CARBONE IL MAESTRO MARGUTTI

 

La canzone genovese non dico che sia diventata contagiosa, ma l’epidemia ci fu. Chi avrebbe mai più creduto che nei genovesi, tempre salde di lavoratori, allignasse il germe della poesia, del ritmo, il guizzo musicale; che nel largo cuore dei genovesi sonnecchiasse lo spiritello – o il demone? – del sentimento?

 

Le nuove riserve

Ad un anno di distanza, altri verseggiatori si son fatti avanti in seconda ondata: Amedeo Pescio, David Chiossone, Carlo Bocca, G. B. Costa, Luigi Castello, Luigi Risso, Italo Mario Angeloni. Erano gaiamente a braccetto dei loro musicisti: Apollo Gaudenzi, Aldo Vigevani, Alfredo Cardosa, Mario Canavesio, Ulisse Trovati, Giulio Mori, Olimpo Spina, Franco Silvestri, F. G. Checcacci.

Ma altre ondate – oh quante! – hanno portato, in pieno impeto, sulla spiaggia della canzone genovese nuovi rimatori, nuovi canzonieri: Alessandro Sacheri, Mario Panizzardi, Francesco Masnata, e i maestri: Carosio, Dellepiane, De Sabata, Emilio Firpo...

Pian piano tutto un mondo di poeti e di musicisti si andava formando e risvegliando.

Il bel plotoncino, in ordine serrato, era diventato un reggimento. E nella sua impetuosa marcia trascinò anche quei pochi – ma buoni – poeti che s’erano invecchiati nello scrivere sonetti e poesie genovesi: Marino Merello, profondo cultore delle liguri muse, s’adattò ai tempi e scrisse strofe e ritornelli alla maniera nuova, seguito da Luigi Tramaloni e da Antonio Pastore, che alle rime leggiadre accoppiò ritmi marziali per inni dialettali cantati dalle scolaresche d’ambo i sessi, del Genovesato.   

                                          I frutti della canzone in fiore

Fu allora che il defunto Umberto Villa lanciò l’idea di un coro genovese per esaltare il Campanon da Tôre. Lanciò anzi, dalle colonne del suo “Successo” un concorso. Non ricordo l’esito di questo concorso. Ricordo soltanto che l’inno lo scrisse lo stesso Villa e fu musicato dal maestro F. G. Checcacci e fu cantato dai cori di centinaia di persone.  La canzone genovese intanto preparava alla stampa le sue strofe, poiché da ogni parte si chiedevano le partiture per piano e canto e mandolino. Luciana Santerno, la signora della canzone, nostra concittadina ed astro fulgidissimo del nostro teatro di varietà, cantò al “Politeama Genovese” le canzoni genovesi, due anni fa, ed oggi ancora le porta in giro per il mondo; Edina Giorgi, altra nostra concittadina, scrive dal Cairo, dove si trova scritturata, da oltre un anno, che per le strade si fischiettano e si cantano le canzoni genovesi del suo repertorio. E Romolo Bonino e G. Marzari e P. Giacoboni seminano per le regioni limitrofe, canzoni genovesi a piene mani e... a piena voce.

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Da sinistra: EDINA GIORGI, ATTILIO CASTAGNETO e il macchiettista ROMOLO BONINO

 

Il primo editore di queste canzoni fu... un napoletano: Roberto Nobile. Il secondo fu un genovese, però residente a Torino: Baciccin Rossi pubblicò in un ricco volume una pregevole raccolta di canzoni con la partitura di piano. L’elegante pubblicazione, intitolata: “Zena a canta”, fu presentata dal Comune di Genova a Benito Mussolini, il quale gradì altamente il dono e lo definì alta opera di alto patriottismo e di squisita genialità.  L’edizione – seimila copie – andò in breve esaurita e Baciccin Rossi ne sta curando la ristampa.  Seguirono le “edizioni” sui dischi, fatte da Dario Caorsi e che compresero tutte le primissime canzoni: Tranvajetti da Doja - Quello che no me va - Bella de Toriggia - Zena bella - Dä Lanterna a Portofin - Baciccin - Barcon ch’o luxe - Ponte de Caignan - A-o Monte – Digghe de sci e scigoa - Belvedere - A-i treuggi - Se ghe penso - Ciassa de Pontexello.  Le Case genovesi dei piani a cilindro cominciarono a contendersele. La Casa Frixone martellò sui suoi cilindri armonici: Tranvajetti da Doja e Canson d’Arvì; la Casa Sebastiano Campora lanciò per tutte le osterie dei sobborghi con i suoi organetti a maniglia: Cantemmo un pô zeneize e Demmone un cianto lì.  Seguirono quelle berlinesi, a mezzo della Parlophon della Casa Lindström di Schlesichestrasse, rappresentata, fra noi, da Sergio Corsanego; poi quelle delle Case italiane Fonotipia, Columbia, Casa del padrone, Fonotecnica.

Intanto la Casa Editrice Musicale “La Lanterna” si è fatta iniziatrice di pubblicazioni esclusivamente genovesi e incominciò la serie con il volume Cansoìn zeneixi di Costanzo Carbone, ed altri sono ora in via di pubblicazione, mentre su di un giornale cittadino, – il Lavoro – fioriscono in pieno poesie e canzoni genovesi, coordinate amorosamente, ancora l’anno scorso da Alessandro Sacheri, raccolte nella terza pagina, diventata simpatica pedana di folklorismo genovese. E vengon fuori nomi nuovi di nuovi poeti: Edoardo Firpo, L. Pedemonte, F. Zerega.

Il Cittadino, intanto, pubblica dei pregevolissimi versi del noto, ma troppo silenzioso poeta C. M. Canevello.

 

Due crisantemi

La canzone genovese ha una scossa dolorosa: muore Aldo Crotto, uno dei suoi fondatori entusiasti. Aveva soltanto ventotto anni. Aveva cantato nei teatri d’Italia e di Spagna. Nei migliori. Al “Carlo Felice” di Genova cantò in due stagioni e fu pure direttore d’orchestra pregevolissimo. Come compositore lascia opere di vasta mole e piccole composizioni, veri gioielli di ispirazione e di originalissima fattura: delle canzoni genovesi lascia: Dä Lanterna a Portofin - Gexa de S. Giulian - Amiadô de Castelletto.

 

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Il maestro ALDO CROTTO

 

Alessandro Sacheri fu l’ultimo ad entrare nella famiglia della canzone. Da tempo si occupava di essa. La seguiva con entusiasmo e le sue prime poesie arieggianti a canzoni le pubblicò appunto sul Lavoro. Poi le fece musicare dal Vittorio De Sabata, che le ingioiellò di musica finissima. Il Sacheri ha radunato tutte le sue canzoni in volume e sono edite dallo Stabilimento Barabino e Graeve.

 

In pieno folklorismo

La canzone genovese continua ad agitare la sua fiaccola. Il Corriere della Sera, la Lettura, l’Illustrazione del Popolo, in poderosi articoli illustrati si occupano di questa birichinella che continua a trillare nel suo gergo strano e strambo, e Arturo Salucci, strenuo valorizzatore delle innumeri bellezze della forte e suggestiva regione ligure, attraverso scintillanti articoli, annuncia pertanto prossima la pubblicazione di una sua antologia di poeti genovesi.

Pure la Casa Editrice Nazionale, diretta dal comm. Emilio Scasso, lancia sul mercato librario una raccolta di poesie genovesi del novissimo poeta Aldo Acquarone: “Confidenze da mae portea”. La bella pubblicazione, edita in nitida veste tipografica, ha una vendita fantastica.

Ma i cori di Tranvajetti da Doja e di Baciccin non sono passati inosservati. Si pensò che esistevano, specie nei dintorni di Genova, delle squadre di canto, dedite al vino e alle canzoni in voga. Il Carbone ne fa cenno in una sua deliziosa canzone, accennando ai cori notturni di Piazza Ponticello:

 

Dove a-o giorno vendan spáeghi,

cassòulin, formaggio sòu

lì gh’é o canto di imbriâeghi,

tutte e nêuttì o l’é occupòu.

 

Poei passaghe verso unn-öa,

proprio lì, sotto a-o fanâ

e sentiei quàe a l’é a demöa.

pe-i vexin che vêuan quetâ!

 

Cantan sempre o “la Titina”

o “I capelli della mia Gina”

Ohé, ohé,

cantan quella do strappontê

Ohé, ohé

“vegni davanti, no stáme derê!”

 

Vennero i cori, a squadre di dieci, organizzati splendidamente, e, mercé l’appoggio magnifico di Cesare Maria Ferrari, sono sorte le prime esercitazioni di carattere genovese. Il Ferrari, passa la sua Mazzo dalle canzoni ai cori e ridà nuovi ritmi a quella miniatura di poesia descrittiva ch’è Ostajetta in Cianderlin del Carbone. Sembrò la parola d’ordine. Ora quasi tutte le squadre di canto del Genovesato hanno introdotte nei loro cori le canzoni genovesi.

Anche le bande le hanno introdotte nel loro programma, da quella del 90° Reggimento Fanteria quando era di stanza a Genova a quella della “Compagna”, da quella di Nervi a quella di Rossiglione.

Sorgono piccole compagnie di quadretti genovesi, a base di canzoni e di tipi nostrani: quella diretta dal Marzari all’Orfeo, quella diretta da Jacopo Franchi a Chiavari, e sorge la Compagnia dialettale di Rosetta Mazzi. Al Teatro Nazionale, David Chiossone fa rappresentare la sua rivista in dialetto genovese: O marcheize a Zena, con canzoni, duetti, cori e terzetti in vernacolo, e infine, al Teatro “Carlo Felice”, il nostro Domenico Monleone fa rappresentare la sua opera, la prima opera scritta e musicata in dialetto genovese, Scheuggio Campann-a, mentre Govi a Torino viene festeggiato – questa volta – dai genovesi e dai Liguri riuniti in associazione: dagli stessi, insomma., che l’anno scorso iniziarono i loro lavori coll’offrire un banchetto ai rappresentanti della canzone genovese, presentatasi, in pompa magna, in quei giorni, al Teatro Balbo.

 

***

 

Tiriamo pure le reti. La pesca è stata proficua. L’opera svolta con la canzone genovese è stata magnifica.

L’amore alla terra natia, alla casa avita, hanno salde radici nel cuore del popolo, sia pure esso popolo di marinai - di trafficanti.

Ne dànno testimonianza la tenace lotta che il ligure sostiene nei fondachi uggiosi e nelle officine fragorose e sui mari perigliosi e di là dai mari per potersi un giorno godere una semplice casetta – sua – su qualche poggio soleggiato a specchio del mare, con pochi palmi di terreno attorno. Se è pur vero che mancano al ligure certe delicatezze e sfumature sentimentali, egli ha un cuore aperto agli affetti, solitamente, qui più che altrove, forti e tenaci. E questo, hanno saputo dirci – e lo hanno fatto sapere al mondo – i fondatori della canzone genovese!

 

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DULCIS IN FUNDO... ALLA “MARINETTA” ANFITRIONE CHECCO GRONDONA

In piedi, da sinistra a destra: m E. R. Calvetti, A. Margutti, G. Grondona, C. O. Guglielmino,

F. Grondona, M. Canavesio, Arnaldo Vigevani. Seduti: Costanzo Carbone, M. Cappello, Raff. Cogorno

 

____________________

 

L’egregio nostro articolista ha voluto, di proposito, mettersi da parte, omettendo due sue pregevoli canzoni: “Trèuggí de S. Brigida” e “Feste de S. Giambattista” ch’ebbero successo vivissimo e ancor ora sono in voga.

 

Dell’ anima genovese

attraverso le sue canzoni

 

(A proposito dell’ultimo Raduno Folcloristico).

 

Articolo a firma M. Novella, pubblicato sul bollettino n° 7 - luglio 1930

 

Se Dio vuole, a Firenze, non s’è cantata nessuna Paquita, nessuna Amapola, nessuna Valencia: non s’è esaltato il cielo dell’Argentina, le chitarre di Spagna, gli occhi di Maruska e tant’altre cose del genere.

S’è esaltata – una volta tanto – l’Italia! Ogni regione ha portato il suo contributo in rime dialettali e musica idem: ha sfoggiato costumi pittoreschi e danze d’ogni genere. Niente fox-trot, niente paso-doble, niente charleston.

Ma invece pavane, tarantelle, gighe, monferrine, tresconi, peligordin, tresette, ecc.

Una volta tanto in Italia s’è respirata l’aria nostra.

Genova, a fianco delle sue sorelle, non è rimasta indietro. Con i suoi cantori molassanesi, ha espressa la sua voce nelle canzoni: A bella de Toriggia, Figge invexendâe..., Baciccin, Davanti a Portofìn; con il duo Genio e Brisca ha sprizzato gaiezza e umorismo; con la rappresentanza della sua razza femminina ha rievocato i nostri costumi antichi, riesumando i mèzzari delle passate generazioni...

E le figliole genovesi – perché non dirlo? – hanno incontrato l’entusiasmo fiorentino e quello straniero. Che di stranieri, nei tre giorni di sagra, ce n’era – per dirla in fiorentino – un mondo e l’altro.

Genova s’è dunque, ancora una volta, fatta onore. Parte del merito va al Dopolavoro genovese che nelle persone del Dr. Amedeo Celle e cav. Gino Fiori, nulla ha trascurato per far rifulgere il folclorismo nostrano degnamente.

E tutto il gruppo genovese, accompagnato dal Dr. Paolo Castello, s’è dimostrato, nella bisogna, all’altezza del compito!

 

 

La canzone genovese è una forma di arte popolare, una manifestazione folkloristica delle più pure, delle più insite nella natura stessa del paesaggio e dei sentimenti che la inspirano. Non è una espressione di lirismo retorico, non è una manifestazione vuota di sentimenti, una descrizione fredda di luoghi ideali come è oggi nella canzone napoletana.

Ogni canto genovese ha una sua ragion d’essere, in ognuno di essi c’è il richiamo ad una tradizione; c’è la vita di un luogo, c’è l’esaltazione di una forza del popolo.

È virtù di creatori 0 questi agiscono sotto l’impulso dell’ispirazione diretta che viene loro dal fatto di essere genovesi? Per carità... non entriamo in questo campo!... e neppure voglio io impancarmi a giudice... non faccio che manifestare una mia idea; che è questa: la canzone genovese ha trovato la sua vitalità da quando sono sorti i poeti che hanno saputo cantare Genova e i Genovesi nel loro sacro egoismo di tradizioni e di razza. Il successo è tutto qui e non è poca cosa. Esattamente come nelle origini della canzone napoletana.

Ma gli inizi le sono stati difficilissimi, e ciò per la natura stessa del popolo genovese, il primo e il più feroce denigratore di sé stesso. Quando è sorta la canzone genovese, per la storia, il Giardino d’Italia... pieno per due sere... poi forni su forni... Ma i tre moschettieri della canzone – questa volta sono proprio tre soli, Carbone, Margutti e Cappello – picchia e ripicchia riescono a portare trionfalmente la canzone in giro per l’Italia ed in America... e dovunque, in ogni teatro c’è un genovese che, con le lacrime agli occhi, si avvicina ad uno dei tre e un poco titubante ma con un lampo di fierezza negli occhi gli stringe la mano e dice “Son zeneize mi ascì!”.

Ma tutto non era compiuto. Si era tentato di dare un canto a Genova. La canzone c’era, ma non c’era ancora l’anima vera del popolo nella forma. Cappello è un grande artista, è il divo, ma la canzone resta nei teatri o si ripete tutt’al più nelle case o la si ascolta nei dischi. Il popolo non canta. Che la canzone sia finita? che sia una sterile manifestazione artistica, destinata al teatro e non al popolo, una forma – se si può dire – di folklorismo letterario?

No. Ed eccone la ragione. Il genovese non canta come il napoletano. Questo è nel canto un egoista; canta per sé solo, e dovunque si trovi. La serenata, la canzone d’amore – forma di lirica personale – sono le forme preferite della sua canzone. Ed allora una barca nelle notti serene, una finestra illuminata, un sorriso di donna, una carezza e la sua anima lirica è eccitata. Degli altri non gliene importa. È un lirico puro, mentre il genovese – e il settentrionale in genere – è un epico. Quando canta ha bisogno di non sentirsi solo, ha bisogno della collettività, e tutt’al più il suo canto diventa un dialogo tra il cantore e il coro.

E se ogni cosa, anche la più piccola, ha la sua ragione, è nel canto quello che è il carattere delle due popolazioni.

Il genovese fiero, egoista, ma disciplinato e ordinato, il napoletano invece divinamente egoista nel suo lirismo di indipendenza e nel suo caratteristico individualismo.

Era naturale perciò che si cercasse il mezzo di popolarizzare la canzone. Ed ecco che Carbone favorisce e incunea le sue canzoni nelle squadre di bel canto, che sorgono subito a dozzine. La canzone genovese entra così nel popolo e siatene certi che vi resterà per sempre.

Cosa sono le squadre di bel canto? Sono gruppi di giovanotti tutti del popolo lavoratore; braccianti, falegnami, garzoni, scaricatori; carrettieri che si trovano un giorno in una osteria fuori città, sotto un pergolato fiorito. Si guardano negli occhi, mandan giù con piacere un capace bicchiere di vin bianco frizzante della Polcevera e poi cantano... quello che il più bravo di essi ha intonato.

È una associazione di mutuo soccorso canoro, una unione di voci che scompagnate non avrebbero neppure il coraggio di stare zitte...

 

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L’emulazione le ha spronate ed ora sono quasi un centinaio le squadre di bel canto sparse per Genova e dintorni, molte di esse istruite da maestri che hanno affinato le magnifiche doti naturali dei singoli elementi, creando in talune di esse dei cori per nulla indegni di essere messi a confronto con gli strombazzati cori stranieri che vanno calcando i nostri palcoscenici.

A proposito di questo un episodio autentico. A Milano la squadra di Molassana si reca per incidere dei dischi. A mezzogiorno va a mangiare in un ristorante del centro. Entrano parlando fra di loro in dialetto. Alcuni avventori – forse ingannati anche dall’aspetto abbronzato e robusto dei cantori – mormora sentendoli parlare “Sono russi!”.

Carbone che accompagna la squadra sente e scoppia in una risata. Faccia degli avventori quando sanno chi sono...i russi! Dopo aver mangiato la squadra intona a mezza voce “A bella de Toriggia”. Gli estranei prima fanno segni di noia, poi si mostrano stupiti delle possibilità di cantare il genovese – un dialetto così aspro e così brutto!...

Per farvela breve se Carbone non si porta via con sudata fatica... i russi, il giorno dopo avrebbero cantato ancora... e se avessero accettato tutti gli inviti ricevuti dagli avventori del ristorante sarebbero rimasti a Milano una settimana.

 

Io queste squadre di canto genovese le vedo nei Paesi sperduti sulle dolci montagne liguri di dove tra gli ulivi ed i castagni si scopre il divino azzurro del mare... lontano... ma il suo richiamo è pur sempre vicino... sulle terrazze coperte di frasche, in maniche di camicia intorno ad un tavolo su cui brilla nel sole l’oro colato del vin della Polcevera. E poi il canto viene naturale ed anima le cose tutte che ne sono la intima essenza.

Mare, cielo, terra e cuori di uomini.

Immaginate con me di salire in una sera di primo estate, su verso la Doria, a Molassana, o su da Bolzaneto verso Torrazza o verso S. Olcese, in una osteria c’è una squadra di canto che allieta la serenità del nostro spirito... poi prenderemo la strada del ritorno, a notte fatta, e le voci ci seguiranno ancora... mentre i nostri sogni sono come le ciaebelle – anche il genovese sa trovar parole dolci per le cose gentili – che trapuntan di stelle le siepi e i boschi di ulivi e di castagni... Domani risentiremo il canto dei silos e delle sirene... e penseremo a quello che sarà la serenità chiara di un altro giorno passato là in alto fra il verde della montagna che sembra tenga prigioniera la nostra anima, e la avvinca sempre più a questa nostra Genova bella e superba.

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