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A Compagna - IL MÉZERO

IL MÉZERO

(Costumi Genovesi)

 

Articolo a firma Marino Merello, pubblicato sul bollettino n° 2 – febbraio 1932

 

ll mézero, e il pessotto che ne è un diminutivo, furono caratteristici leggiadramente dell’abbigliamento delle donne genovesi, quasi come lo strophium [fascia per il seno, nastro per i capelli, n.d.r.] delle antiche matrone di Roma, e lo zendado delle veneziane, e la mantilla spagnuola.

ll pessotto era un semplice velo: talvolta di cotone leggero e bianco, talvolta ornato di fioretti a più colori; e usavasi anche inamidato.

Ma il mézero era sempre vaghissimo di decorazioni screziate; e l’usanza ne cominciò verso la fine del secolo XVIII.

Già sin dal 1650, era stato introdotto in Francia il procedimento della stampa a colori su tela di cotone, derivato dai campioni che la famosa Compagnia delle Indie – in cui ebbero parte anche i Genovesi – aveva recati da Serange e da Mazulipotan.

Le stoffe di cotone indiane (calicot) divennero presto di moda, in Europa; e, naturalmente, s’impiantarono fabbriche per imitarle.

l setaioli francesi, ben a ragione, temettero che il minor prezzo e la novità graziosa di quelle stoffe avessero a danneggiare, se non a soppiantare, la loro ricca industria antica, e giunsero a ottenere un editto reale di Luigi XIV che ne proibiva la importazione dalle Indie e la imitazione locale.

A tutta prima e a sua volta, l’editto sgomentò i già numerosi (d’onde le preoccupazioni de’ setaioli francesi) artisti e industriali delle tele “indiane”. Essi emigrarono in massa nella Prussia, in Inghilterra, in Svizzera. Quivi, a Neuchâtel, un certo Saintougeois Jacques de Luge fondò ben cinque grandi stabilimenti per quell’industria vietata.

A poco a poco la severità dell’editto proibitivo – al solito delle leggi che non riescono di utilità generale – diminuì tanto da permettere, più o meno clandestinamente in sul principio, il ritorno in Francia delle “indiane” autentiche e di quelle imitate. 

Intanto gli stabilimenti del genere crescevano, massime nella Svizzera. La città di Mulhouse, già nel 1746, aveva disegnatori e stampatori delle “indiane”, e pittori geniali (come Giovanni Enricone Dollfus) i quali si mantenevano in buoni rapporti con quelli di Neuchâtel, di Aaran, e di Basilea.

Ne conseguì un tale esorbitante aumento di produzione di quei tessuti da non poter più essere frenato nell’uso da leggi proibitive.

L’editto del 1696 aveva avuto lunga vita, quantunque stentata, per 73 anni; e nel 1759 venne abrogato.

Allora, come un’ondata, si rovesciarono dalla Svizzera in Francia gli artisti e gli industriali di “indiane”. Sorsero fabbriche dovunque, anche in Alsazia; Oberkampf introdusse le tele di Jouy. Scrisse egregiamente il prof. Orlando Grosso in una sua breve e nitida monografia pubblicata nel 1923: “I disegnatori alsaziani copiavano bene le decorazioni orientali con rami fioriti di rose, ornati di canestri, di uccelli, con rovine romane, e, già nel 1785, si nota la bella policromia e l’ampio movimento del disegno e della modellazione delle foglie e dei fiori che tanto ricorda l’ordinamento del nostro ligure mézero”.

Difatti, circa un anno prima (nel 1784), da Clarona nella Svizzera, due artisti di mézeri, Giovanni e Michele Speich. erano venuti in Liguria e fra Cornigliano e Campi avevano impiantata una fabbrica di “indiane” e di mézeri.

Benché Genova non mancasse di setaioli (almeno commercianti) la nuova industria non soltanto non ebbe ostacoli ma protezione palese.

La Società Patria, istituita due anni dopo, prescriveva ai soci di preferire le merci nazionali alle forestiere. E come nazionale veniva riconosciuta la nuova industria dei mézeri.

Giovanni Speich, con sua istanza dell’8 Febbraio 1787 (Archivio di Stato – Actorum, n. 4; n. g. 2200), dopo essere stato premiato nelle esposizioni industriali liguri, per aumentare più sicuramente la sua produzione costosa, chiedeva ai Serenissimi Collegi il privilegio esclusivo, per un certo corso d’anni, della fabbricazione (il testo dice: “costruzione”) di tutti i generi di telerie stampate da lui.

L’istanza fu accolta. Con decreto dei Collegi del 17 Aprile di quello stesso anno 1787, si accordava a Giovanni Speich: il “gius privativo” per anni 15 di stampare, nella città e nel dominio, tele e fazzoletti turchini.

Ma dieci anni dopo lo Speich doveva muovere lagnanza perché, contro il suo privilegio, un Luigi David stampava tele in Sampierdarena, e Angela Maria Torre fabbricava in Genova fazzoletti turchini.

L’onesto industriale – con esempio raro – si doleva più del discredito che poteva derivare da colori falsi alla stampa delle tele che non del danno proprio.

Intanto egli, per tutelare i prodotti della sua grandiosa fabbrica, teneva gelosamente custoditi i segreti delle tinture, in un libriccino da cui poscia il Testori, in volumi posseduti dal nostro Comune, ricavò le interessanti memorie su la stampa delle tele.

Il sistema era basato su l’applicazione di mordenti, fatta con legni incisi (pare che di questi stampi lo Speich ne avesse 1500, e andarono a finire a Milano) d’onde poi la stabilità dei sovrapposti colori.

Il processo è cosi descritto dal Grosso, in riassunto del Testori:

“La stampa si faceva con i mordenti, e i più comuni erano quelli di acetato di alluminio (rossi), di ferro (viola, nero) e il pulce era ottenuto con la combinazione dei due mordenti. Il disegno veniva, stampato sulla tela con i legni incisi spalmati del mordente, e poi venivano tinti, immergendo le tele secondo i voluti colori, in appositi tinelli di quelcitrone, di cocciniglia, di campeccio o “fusteto” ed ogni tinta dava una speciale combinazione di colore.

“Le materie coloranti si estraevano dai legni: brasile, legno giallo, campeccio, sandalo rosso, quelcitrone; dalle radici: robbia, curcuma; dalle foglie: guada, ginestra, vergourea; dalle paste: indaco, oriana, oricella; dagli animali: cocciniglia, ecc.

“Le materie coloranti, tenute nelle tine, si combinavano con i mordenti applicati alle stoffe e, da questa unione, risultava un colore inalterabile, mentre nelle parti prive di mordente il colore spariva dopo un lavacro in acqua semplice, o l’imbianchimento al sole fatto nel rovescio della tela spruzzato d’acqua”.

I mordenti avevano un colore di per se stessi e, al contatto delle altre sostanze, prendevano le tinte più svariate e smaglianti.

Prosegue il Grosso:

“Per i mézeri l’applicazione dei colori si faceva mediante i mordenti per le tinte: nanchino, color legno, primo, secondo e terzo rosso per mézeri e pessotti, per il rosso del gambone dell’albero vecchio, per l’oliva, i violetti di garanza, violetto, per i “frisi” per quelli dell’albero vecchio e dell’albero violetto, per i mézeri “ramagiati”.

“Per ottenere il giallo si usava la grana di Persia, l’erba guada, e si otteneva pure con i cromi”.

Dopo la tinta, così ottenuta, i mézeri si ossidavano, tenendoli, a seconda della stagione, da uno a sei giorni in una corrente d’aria calma e umida.

Altre operazioni accessorie, per la durata delle tinte, erano: il degommaggio (o bossinaggio), il garanzaggio, il pasaggio, e il bollibigio.

Il primo consisteva in un bagno d’acqua a 68 gradi, con sterco di vacca e creta di Francia. Doppia era l’immersione; e poi lavatura accurata in acqua corrente.

Il garanzaggio, che seguiva, si faceva dentro delle tine con una soluzione di garanza di Avignone.

Il pasaggio e il bollibigio si facevano in un bagno di 40 litri di garanza e due once di galla in polvere per 40 mézeri. Il bagno durava tre ore, rimescolando di continuo la tela ed elevando la temperatura, grado a grado, sino a 75 (e 80 nel bollibigio) per circa mezz’ora.

Se i mézeri erano stati impressi con i mordenti del violetto. nel garanzaggio non si metteva galla, che avrebbe nuociuto al colore.

Certe tinte, come il verde, il tortora, il carnicino, il blu, si applicavano a vapore, stampate con una soluzione di gomma arabica o di amido, e, dopo circa 5 giorni di deposito in una camera sotto l’azione del vapore, le tele si lavavano in acqua corrente, poi si ponevano in soluzione di acido muriatico e sale di stagno, infine si passavano in una soluzione d’acqua forte.

Meno complicata era l’applicazione dei colori: indaco, oliva, verde solido, che facevasi direttamente, con il lavaggio, poi, in acqua corrente.

L’imbiancatura dei mézeri si otteneva così: venti mézeri posti in bollitura per venti minuti in una miscela di 48 once di sapone; lavati e battuti sino a dar l’acqua chiara: per dieci volte immersi in acqua a 40 gradi con due boccali di cloro di calce chiaro: infine distesi ad asciugare al sole.

I risultati di queste operazioni, che richiedevano una tal quale material perizia oltre il pregio dei disegni e dei colori, si ammirano ancora, freschi e vivaci, in mézeri che furono ricercatissimi – dopo che, in città e poco dopo nelle campagne, essi andarono fuor di moda come abbigliamento donnesco – per adonarne di tende o di portiere i moderni salotti.

E tuttora se ne fabbricano, a scopo quasi esclusivo di paramento – e perché degli antichi e veri non se ne trovano quasi più – delle bellissime imitazioni.

Le quali possono servire anche a mascherate in costume, a scene teatrali, e – perché no? – a graziosissima bizzarria signorile.

Come nel ritratto della signora Pierina Cogorno che qui si presenta, e da cui più chiaramente è rievocata la dolce poesia del mézero, nel suo antico portamento, bello e gentile.

 

VECCHI COSTUMI GENOVESI

 

Articolo a firma C. C., pubblicato sul bollettino n° 10 – ottobre 1931

 

La denominazione All’Insegna della Tarasca potrà far pensare, a qualche buon borghese, che si tratti forse di una caratteristica osteria o di un negozio di armaiuolo.

Niente di più errato.

Sotto questa daudetiana insegna si aduna un gruppetto di giovani artisti genovesi – di tutte le arti – appassionati dell’arte grafica e della decorazione artistica del libro.

Ed essi non sono nuovi al mestiere: già due anni fa pubblicarono La soave compagna, di Lio Rubini, che è un prezioso libriccino di versi, e alcuni volumi di M. V. Strata.

Recentemente scovarono un pittore (Giorgio Mejneri) che sapeva accompagnare i suoi delicati quadretti con gentili poesie e lo accolsero nella loro schiera che non vuol essere numerosa ma che tende solo a essere composta di elementi scelti; in lingua povera: pochi ma buoni (e si scusi se è poco).

Ancor più di recente All’Insegna della Tarasca si pubblicò, in bella edizione, con fregi di Mimmo Guelfi, O grillö candadö, un libro di liriche genovesi che ha avuto un successo molto notevole a Genova e, ciò che sorprende, ancor più fuori della Liguria.

Ma i taraschini non sono commercianti, (come si può esser genovesi senza essere commercianti? chiederà il genovese P. M. Bardi), non fanno una speculazione dell’editoria. Si permettono volentieri il lusso di rifiutare di pubblicare volumi destinati al successo per preferire le Opere che a loro piacciono; non pubblicano prosa ma preferiscono la lirica, pura, che, per sua natura, è destinata ad una cerchia limitatissima di lettori; anche qui: pochi ma buoni!

Questi giovani hanno voluto vivere il loro sogno d’arte e vi sono riusciti: gran merito perché nulla è più difficile che poter vivere un sogno; essi hanno preso dalla Bohème quel tanto di donchisciottesco che vantava anche Massimo d’Azeglio a dispetto del suo nobile parentado, dalla vita moderna tutto quello che deve trarne un buon cittadino.

La cura principale di questi artisti è stata, fin qui, di fare xilografie: incidono legni e stampano le loro opere con un torchio del secolo scorso.

Appunto dalla loro attività xilografica è venuta fuori questa cartella di Vecchi costumi genovesi (All’Insegna della Tarasca, 1931 - L. 250) stampata in cinquanta esemplari.

In una bella legatura in tela grezza sono contenute dieci tavole impresse in nero e acquarellate a mano dall’autore, che è Cardo Ferrari: uno dei fondatori del cenacolo. Da quel buon genovese ch’egli è si rammaricava che i nostri bei costumi antichi non fossero per nulla curati dagli studiosi di questioni etnologiche e un bel giorno s’è deciso: ha impugnati i bulini, s’è cacciato nelle biblioteche d’onde ha tratti fuori questi dieci costumi appartenenti a quell’epoca in cui vivevano quelle nostre antighe nonnette da tanto tempo morte, che anchêu fra l’erba cocca in to preseppio séi. (O grillö candadö)

 

Conscio di come ogni opera richieda uno speciale modo di stilizzare e di come si debba interpretare a fondo il carattere e l’animo di ogni lavoro prefissosi, il Ferrari, in questi costumi genovesi, ha cercato, e bisogna riconoscere che c’è riuscito, di andare a ritroso nel bel tempo antico e di incidere e acquarellare come avrebbero acquarellato e inciso i buoni artisti dell’epoca in cui erano di moda quei costumi: cioè di almeno due secoli fa.

Sono costumi, questi, che si possono ancora trovare sulle figurine dei classici presepi di Coronata e della Guardia: delizioso anacronismo, così puro nella sua ingenuità.

Ma il Ferrari non s’è voluto fermare ad una semplice ricostruzione di costumi antichi: e un vero artista non poteva fermarsi e accontentarsi di questo solamente.

Egli è andato oltre: s’è lasciato trascinare dalla sua passione di pittore e di disegnatore, e, in ogni tavola, oltre il personaggio che vi interpreta, ha voluto porgere uno sfondo che sia il più adatto al personaggio stesso.

Cosi il Mulattiere, tutto infioccato e agghindato, ha dietro di sé una salita su cui si arrampicano alcuni muletti bene schizzati.

Alla donna che porta Il Mezzaro si contrappongono piccole figure in lontananza con su le spalle i loro mezzari.

E così pure nella tavola dove è illustrato Il Pezzotto, che altro non è che un mezzaro di più piccole dimensioni e di più modeste pretese; facile accorgimento per aver occasione di poter mostrare tutte le parti delle mantiglie.

 Dietro al Camallo da olio si scorge una chiesetta barocca; è certamente una di quelle parrocchie che si trovano arrampicate su per le colline di Coronata, Begato e disseminate in tutta la Val Polcevera.

Il Marinaio è accompagnato da un veliero in un breve specchio d’acqua.

Raramente accade di trovare un’opera che, sotto qualunque punto di vista si esamini, interessi e non presenti manchevolezze come questa cartella di vecchi costumi genovesi.

Geniale l’idea di raccoglierli, pregevole l’opera dell’artista e signorile l’edizione.

E se qualcuno osserverà che dieci tavole per duecentocinquanta lire sono poche si può ripetere: poche ma buone!

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