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Genova

IL CASTELLETTO

A COMPAGNA

 

Articolo a firma Odone Sciolla, pubblicato sul bollettino n° 4 – luglio 1928

 

Il nostro Municipio, con ottimo intendimento, fece scolpire su marmo, in tenue altorilievo, la figurazione del Castelletto quale era nel Cinquecento. L’opera pregevole è del nostro scultore Bassano. M. M. Martini detterà l’epigrafe. Il marmo si doveva collocare presso la stazione dell’Ascensore; oggi si parla di collocarlo sulla fronte del nuovo Ascensore di ponente. Comunque sia, il Comune porterà a compimento la felice iniziativa, cui la “Compagna” porge giusto e doveroso plauso [vedi articolo seguente, n.d.r.].

 

Il prisco colle

Nei primi secoli dopo il mille, fu certamente un colle coltivo, a scaglioni e ripiani, come erano i varii colli che emergono dall’anfiteatro meraviglioso: colli che il Petrarca giovinetto vide ancora ricoperti di pampini, ulivi e melarancie e che, nei più tardi anni, paciere fra Genova e Venezia, pianse incolti, deserti e rovinosi (Epist. T. II).

Che tale fosse se ne argomenta da un laudo di Teodolfo I, vescovo nel 951, che accenna al canone livellario che gravava il terreno vitato, concesso ad un prete Silvestro (Lorigiola: Cronistoria pag. 262).

E, con maggior precisione, se ne argomenta da un atto antichissimo del Comune, del 1145, il quale reca provvidenze per l’espansione urbana, mediante concessioni di terreni vicini alla città (Canale: Storia dei Genovesi, Vol. II, pag. 389).

In questo atto, scritto in lingua latina, è detto:

“Del piano di Castelletto. Nella Chiesa di San Siro, davanti all’altare di Giovanni Evangelista: I Consoli Filippo di Lamberto, Bellamuto Tancleo di Mauro testimoniarono ed affermarono che la Chiesa di San Siro, senza contrasto di tutti i venturi Consoli, del Comune di Genova, del popolo e di tutti i cittadini, possegga tutto il piano del vertice di Castelletto come appare tra le macerie, e la Chiesa abbia potere di edificare per tavole ottanta di chiesa, case, orti etc. etc.”

L’atto continua a precisare che dalla parte di Bonifazio le tavole sono diciannove, dalla parte verso la città sono ventisei etc. etc.

Venendo al “podio superno” che è proprietà del Comune soggiunge:

“In modo che il piano, che è vicino alle macerie e vicino alla casa di Santo Onorato, in ogni tempo rimanga libero da costruzioni per poter vedere la città ed il mare.”

L’atto ripete ancora una volta la stessa condizione.

“Tutto il resto sia della Chiesa, per modo che in ogni tempo vacuum remaneat, per utilità della stessa Chiesa, a ciò di là il popolo possa vedere la città ed il mare.”

Il documento, di tanto valore per la storia di Castelletto, si trova inserito nel Volume A pagina X del Liber Jurium, nel quale l’atto antichissimo, con parecchi altri, fu trascritto, perché l’originale era stato distrutto in un incendio. I Liber Jurium, come è risaputo, costituiscono la preziosa raccolta degli atti pubblici di Genova che fu mandata da Napoleone a Parigi, dove si trova, ad eccezione dei due primi volumi A e B, il primo dei quali si conserva nella Biblioteca dell’Università, ed il secondo nell’Archivio di Stato.

Riproduco dal Liber Jurium le prime righe dell’atto dalle quali risulta che, fin d’allora il Comune voleva che il panorama superbo dovesse essere salvaguardato a beneficio dei cittadini.

 

Il torrione ed il Castello

In quella lontana età non vi era ancora alcuna fortezza: l’arce di Genova era San Silvestro a dominio del mandraccio. Soltanto nei primi Secoli dopo il mille è ricordata l’esistenza sul Castelletto di un propugnacolo, un torrione, turris magna, quale compare nelle prime figurazioni che rimangono. Con fondamento se ne deduce l’esistenza nel 1158 dal fatto che in quell’anno fu costrutta, a schermo contro Barbarossa, la prima cinta di mura, nella quale era chiuso il Castelletto.

Più vasto torrione o fortilizio era certo compiuto nel 1327, nel qual anno lo Stella dice finite le nuove e più robuste mura: coevamente cioè alle guerre civili fra guelfi e ghibellini che funestarono crudelmente le alture della città. Pro monstro narrandum est, et numquam aliud auditum, non terra simul et pelago, sed in aere etiam et sub terram imo propugnaretur. (Petrarca: Ep. citata). Il Volpicella, in un diligente studio di iconografia panoramica si duole che manchino vedute di quell’epoca (Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. LII, pag. 255). Le prime furono dall’A. rintracciate in quattro acquarelli dello speziale lucchese Giovanni Sercambi, nel primo dei quali acquarelli è raffigurata la città in occasione della venuta in Genova di Papa Urbano VI (1396). In questo acquarello si distinguono la torre di Castelletto e l’altra del Comune, entrambe con la bandiera genovese.

 

Le notizie più sicure si hanno della posteriore ricostruzione che ne fece il Bucicault il quale diede al Castelletto vera e propria forma di castello turrito.

Il 24 ottobre 1396 Genova assoggettavasi al dominio di Carlo VI, re di Francia, che durò fino al 4 settembre 1409.

Dei quattro luogotenenti del Re, che si susseguirono al governo, primeggia indubbiamente il maresciallo Giovanni Lemeingre detto Boucicault governatore dal 31 ottobre 1401 al 3 settembre 1409.

Uomo indubbiamente di grande ingegno e di non comune energia comprese l’importanza di Castelletto. E subito si diede ad ampliarlo e munirlo di torri.

Il Giustiniani – vissuto in epoca non lontana dagli avvenimenti – scrisse sotto l’anno 1402: “E in quest’anno si ampliò la torre del Castelletto, e si ridusse in forma di castello, e se gli fecero muraglie grosse, e forti, e in mezzo una grossa torre, e due altre in l’estremità delle muraglie, e si ruinò la chiesa di S. Onorato, che era vicina alla fortezza, e fu ordinato per il Governatore che dentro il Castello si facesse una nuova Chiesa, in onore di S. Onorato, e la fabrica di questa fortezza ebbe principio sino in l’anno passato.”

Il Volpicella (op. cit.) riporta parecchie vedute dell’epoca sopra ricordata.

Da un incunabolo tedesco dello Schedel, stampato nel 1493, si rileva il vigoroso mastio del Castelletto con le torri cilindriche, due sul fronte ed una indietro più elevata a bandiera alzata, cinto da cortine e torri quadre facienti sistema con la cerchia delle mura che cingevano la città a ponente.

In altra veduta, di data poco diversa, si rileva, oltre le tre torri cilindriche, una quarta quadra.

 

La veduta più completa è quella che si ricava dal grande quadro esistente a palazzo Bianco fatto, nel 1597, dal pittore Cristoforo Grasso, per decreto dei Padri del Comune e che sarebbe rifacimento di altro dipinto del 1410 e che riproduco più sotto.

 

L’A., analizzando elementi topografici, navali, scenografici ed araldici (sul Castelletto sventola la bandiera dei Fregoso) nega che il quadro di Cristoforo Grasso riproduca un dipinto del 1410, ed opina che l’artista abbia riprodotto un dipinto certo posteriore al 1481.

Dallo stesso A. (Volpicella, ivi, pag. 281) riproduco la seguente riduzione di miniature del Codice di Jean d’Auton, dalla quale si vede chiaramente la distrutta chiesa di San Francesco, la vetta del monte Peralto guernita del poderoso Castellaccio (prima della ricostruzione del 1530), ed il mastio del Castelletto.

 

Tolgo dallo studio del Grosso e Pessagno (“Gazzetta di Genova” 1914 N. 2) la seguente descrizione che eglino ne fanno, appoggiandosi particolarmente allo Stella.

“Il Castelletto si componeva di una costruzione massiccia di forma quadrilatera. I quattro corpi di fabbrica avevano ai lati di congiunzione torri con solide scarpate che rafforzavano gli angoli dell’imponente edifizio; nel centro eravi la turris magna.

Attorno a questo nucleo si svolgeva il complicato sistema di cortine. Entro la cinta vi erano orti, giardini ed una chiesa. I quattro fabbricati che formavano la cittadella avevano i piani inferiori rafforzati dalle scarpate, circondati dai fossi, muniti di feritoie a occhio e a croce, quelle per le bombe, questa per i balestrieri e gli archibugieri. Contenevano inoltre gli androni, i corpi di guardia, i magazzini, e più in alto si trovavano pochi appartamenti privati del capitano semplicemente arredati.

L’edificio terminava con una piattaforma superiore, specie di terrazzo collegante le quattro fabbriche e le torri; lungo tutto il perimetro correva la salda merlatura.

Nella faccia di ponente si apriva una porta di ingresso a ogiva alla quale si accedeva dalle mura e che portava alla corte centrale.”

Il Poggi così descrive le vie d’accesso (“Rivista Ligure di Scienze, Lettere ed Arti” 1927, pag. 50):

“Per quattro ripide vie andavano e venivano le soldatesche. La montà di San Francesco metteva il Castelletto in relazione con Soziglia e Banchi. La montà dell’Agonia dava la comunicazione con piazza Fontane Marose e Palazzo Ducale: essa ebbe tal nome quando al Castellaccio furono impiantate le forche. La terza era una viuzza di cui si vedono le traccie fra il palazzo Podestà e quello del Municipio: essa conduceva al “passo de ronda”, a case di malaffare, un immondo recinto che si estendeva fra via Maddalena ed il piano di Castelletto. Questo recinto fu demolito in gran parte con la costruzione di via Nuova (Garibaldi). La quarta via, che conduceva a Castelletto, era il passo della Rundinea (che i Genovesi cambiarono col tempo in Rondinella).

Il Celesia (Topografia, paragr. II) aggiunge che il Castelletto “nelle cave sue viscere aveva due vie sotterranee, delle quali l’una lo congiungeva al monastero di S. Siro, l’altra al palazzo dei Dogi”.

 

Distruzioni e ricostruzioni

Castelletto, per due secoli, fu strumento della dominazione straniera che le fazioni interne favorirono e qualche volta chiamarono.

Gino Capponi così riassume quel torbido periodo:

“Discordante in se stessa, si diede in servitù di Francia, poi si cercò padrone in Italia, e ubbidì ai signori di Milano, Ella maggior cosa di Milano. Ricadde sotto ai Francesi l’anno 1500; poi vennero gli Spagnuoli e un’altra volta i Francesi. Quegli anni furono a Genova dei più calamitosi che avesse mai. Genova fra tanti mali aveva pur sempre l’agio di lacerarsi in se stessa, nobili e popolani, Guelfi e Ghibellini, Adorni e Fregosi combattevano confusamente a pubblico strazio; aveva la discordia cento nomi e cento facce e cento mani levate alla ruina della gloriosa città.”

Con precisione cronologica, il periodo di cui parliamo è crudelmente questo:

Genova stette:

dal 1354 al 1356 sotto la dominazione di Milano

dal 1396 al 1409 sotto la dominazione di Francia

dal 1409 al 1413 sotto la dominazione del Monferrato

dal 1421 al 1435 sotto la dominazione di Milano

dal 1458 al 1461 sotto la dominazione di Francia

dal 1464 al 1478 sotto la dominazione di Milano

dal 1489 al 1499 sotto la dominazione di Milano

dal 1499 al 1528 sotto la dominazione di Francia.

Il Castelletto, come ho ricordato, serviva ai dominatori per signoreggiare la città, donde l’odio delle genti soggette, le insurrezioni e le demolizioni.

Quattro volte fu demolito e quattro volte riedificato.

Il Giustiniani scrive che il 22 marzo 1412, il Consiglio di trecento cittadini deliberò che si dovessero rovinare le torri e la fabbrica costrutta da Boucicault e che il 26 aprile se ne cominciò la demolizione.

Il conte di Carmagnola, governatore di Genova per i Visconti restaurò nel 1421 il castello: ma nel 1436 un’insurrezione lo distrusse dalle fondamenta.

Di nuovo ricostrutto nel 1448, fu di nuovo demolito nel 1476 dal popolo insorto contro la dominazione straniera di Galeazzo Sforza.

Un’ultima ricostruzione, fatta dai Francesi, fu parzialmente distrutta nel 1507 ed il forte fu definitivamente abbandonato nel 1528, dopo la quale epoca andò quasi completamente in rovina.

Del come i dominatori si servissero si hanno molte testimonianze.

Testimonianza molto esatta si ricava da un manoscritto esistente nell’Archivio di Stato (e del quale vi sono altre due copie). “Un anno di storia genovese”, di cui non si conosce esattamente l’Autore: da alcuni essendo lo scritto attribuito a Bartolomeo Senarega da altri ad Antonio Grillo.

L’anno al quale esso si riferisce è il 1506. Genova è in quell’anno sotto la dominazione dei francesi che bombardano più volte la città, la quale, dopo lunghe prove, insorge e trionfa nel nome di Paolo da Novi.

Trascrivo qualche riga dal testo pubblicato dal Pandiani (Il Banco di San Giorgio, pag. 252):

- 1507, 25 febbraio

“Lo castelano ha tirato 5, o, 6 colpi d’artagliaria con le petre e ha dato una in Morsento, in casa di un tessitore”.

- ” , 5 marzo

“Quella notte, a hore 6, Castelletto ha tirato due mortaretti; l’uno ha dato appresso Banchi, in casa di Serra”.

- ” , 26 marzo

“A hore tre di notte in circa, lo Castello ha tornato a tirare mortaretti; e con l’agiuto de Dio, quantunque abbi fatto grave darmagio, non si è fatto male a persona alcuna”.

Il diarista continua giorno per giorno ad annotare i tiri del forte e giunge al giorno:

- ” , 10 aprile

“Finalmente a hore 16 in circa fu solevato doge Paolo da Nove che era tintore di seta. L’hanno fatto duce, e un grande seguito di popolo minuto ha cavalcato per tutta la terra; poi, ritornato a Palasio, è andato in Senato con tutti gli Officii, e li dettero sacramento che preso fusse Castelletto, lo dovessero deruvare”.

 

Nel Sei e Settecento

E, diruto, diroccato, in stato di completa rovina, come ancor oggi si vedono parechi castelli sul nostro Appennino, dovette restare per molto tempo. I dissidi interni, dopo la costituzione del Cinquecento, erano meno violenti: alle gare di predominio e di potere erano succedute meschine gare di lussi e festini.

Si aggiunga che intanto era venuta costruendosi la più vasta cinta di mura e di fortificazioni dalla Lanterna al capo di Carignano (1626): i forti che ancor oggi dominano la città presentavano ben più poderosa forza del Castelletto.

Con l’andare degli anni sullo spiazzo, attorno alle rovine, sorsero delle abitazioni, si coltivarono orti e giardini.  Riproduco una stampa del Ratti (1780) che rende abbastanza le mura che cingevano il colle quali in gran parte si vedono ancora oggidì.

 

E riproduco una stampa del principio del 1800 (raccolta Onofrio Sauli) che rende l’idea delle poche ville che si erano venute costruendo nel piano.

Da una pianta coeva si rileva l’esistenza di quattro costruzioni, in mezzo a terreni alberati e coltivi: nonché l’esistenza della fabbrica di polvere da sparo, trasportata in Castelletto dal palazzo Ducale dopo lo scoppio avvenuto il 1539.

Non metto conto di dire che si tratta di vedute di maniera, che gli artisti componevano valendosi di stampe di molto tempo anteriori.

Chi si accingesse a precisare lo stato della regione, sulla scorta degli archivi e dei catasti, non troverebbe molto dissimile, nel Settecento e nei primi anni dell’ottocento, la figurazione quale risulta dai due grafici sopra richiamati.

 

Il nuovo forte

E così doveva essere nel 1821, allorché, (come riferì il generale Racchia, Camera dei Deputati, 25 luglio 1848), il Governo Sardo pose gli occhi sulle rovine del Castelletto per edificarvi, come edificò, sopra i disegni di architetto straniero, una caserma. Tale – caserma - senza carattere di fortezza, secondo il Racchia, fu la nuova costruzione, malgrado l’apparenza e gli sconvolgimenti politici la facessero sembrare una “bastiglia”.

La figura seguente è riprodotta da un quadro coevo a cura dell’Ufficio Belle Arti del Comune

 

Qualche storico erroneamente asserisce che il nuovo forte, o caserma che fosse, fu demolito a furia di popolo: mentre fu demolito per precisa disposizione di legge.

Siamo nel 1848, l’anno fortunoso del nostro riscatto, nel quale gli animi degli Italiani si ridestano ai sensi vivissimi di indipendenza.

Manifestazioni popolari, indirizzi dei nobili (Brignole) ed il Corpo Decurionale chiedono a gran voce che “sia eguagliato al suolo l’edifizio”.

Il deputato Bixio (avvocato Cesare Leopoldo) presenta formale proposta alla Camera Subalpina che lungamente ne discute nelle sedute 25, 26 e 27 luglio, nel quale giorno fu approvato il disegno di legge. (Voti favorevoli 87, contrari 61).

Dalla discussione risulta chiaro lo scopo che fu precisato nell’articolo primo: “Disarmamento e demolizione di tutti quei forti che non hanno per scopo la difesa della città dal nemico esterno”. 0ggetto di più lunga discussione fu l’articolo successivo: “Saranno immediatamente demolite tutte le opere militari del forte di Castelletto, etc.”.  Parlarono varii oratori, Cadorna, Valerio e Cavour: quest’ultimo per sostenere che, come il Castelletto, doveva demolirsi la cittadella di Torino.  Ma la proposta Cavour non raccolse la maggioranza e, come ho detto, la legge provvide unicamente ai forti di Genova.  Mi dispenso dal riferire i molti discorsi che si tennero: restringo il riferimento alle parole dell’autore del Dottor Antonio, il deputato Giovanni Ruffini, che, con amara ironia, dava così ragione del voto in favore: “Sta lassù il castigamatti; così chiamavasi per antonomasia quel forte. Ora vedete, o signori, che i Genovesi non hanno poi tutto il torto se vorrebbero levarselo d’addosso quel castigamatti, essi che sanno di essere non matti ma savissimi, come lo attesta lo spirito veramente italiano, onde sempre degnamente, in questi ultimi anni, hanno dato luminose prove” (Atti Parl. Cam. Dep. Leg. maggio-dicembre 1848).  La legge ebbe pronta esecuzione; il Governo il 13 agosto 1848 bandì l’appalto per la demolizione, ed il 16 si dava principio ai lavori.  Frattanto il Municipio, cui il Governo aveva trapassato l’area, disponeva il progetto per la costruzione di dodici edifizi, di carattere popolare: con incanto del 20 giugno 1853 vendeva le aree sulla base di quattordicimila lire circa per caseggiato, uno eccettuato che fu venduto per seimila. (Atti Notaro Tiscornia 1853, Vol. 1. e 2.).  E una “Società Caseggiati di Castelletto”, con l’opera di Mastrangelo Borgo, provvedeva alacremente alla costruzione delle attuali case, come è riprodotta nella fotografia della figura 10 che dobbiamo alla cortesia del sig. Italo Buono.

 

Tali le origini del Castelletto presente che, in breve sunto, ho ricordato, augurando che diligenti studiosi, valendosi degli archivi delle Compere, della Repubblica e dei Notari, vogliano più ampiamente illustrare.

In oggi, il Comune, con lavori di abbellimento, pone sua cura nel farne – come lo vollero i Padri antichissimi – il bel panorama, dal quale i cittadini possano “vedere la città ed il mare”, ad-videndam civitatem et mare, come si legge nel marmo murato in un palazzo della Spianata.

Non più dunque sia la briglia temuta, ma lo stimolo piacevole alle concezioni sconfinate dell’anima genovese. E podio educativo rimanga come i Consoli Di Lamberto e Di Mauro lo giurarono in San Siro.

Eglino, nel disporre le prime costruzioni sul colle superbo, vollero serbare libera la vista, quasi nessun limite, nello spazio lontano, dovesse mai porsi al dominio della gente sul mare.

Nietzche che, meglio di ogni altro, percepì ed espresse la bellezza di questo sentimento, ne scrisse alla sorella così:

“Questa è Genova, la città con la vista sul più superbo promontorio di Europa. Qui in Genova io pure sono superbo e felice. Mi aggiro con esultante felicità per le alture. Genova vuol dire mare, famigliarità col mare, felicità del mare, brivido del mare: vuoi dire aurora e al di là, speranze sconfinate e temerarie voluttà”.

 Il Castelletto

Articolo pubblicato sul bollettino n° 7 – ottobre 1928

 

Il Municipio, molto opportunamente, ha collocato in Castelletto - sulla spianata panoramica [Belvedere Montaldo, civico n. 2, n.d.r.] – un bassorilievo in marmo che riproduce il Castello quale era nel 1400. L’opera è dello scultore Ave G. B. Bassano, nostro egregio compagno. Il bassorilievo è in marmo scavato direttamente sotto il piano, ed a piani ripresi, con che il valente artista ha ottenuto molto rilievo con poco incavo. Ed in vero i primi piani sono allo stesso livello dei più fondi; e sia prospetticamente che plasticamente ne risulta la necessaria distanza. L’opera è in puro stile quattrocentesco, sia nel bassorilievo che nell’epigrafe la quale, dettata da Mario Maria Martini, suona così:

Su questo colle detto di Montalbano dove esisteva un’antica torre – sorse nel sec. XV il formidabile Castelletto qui riprodotto. Il Popolo insorto contro l’oppressore straniero lo espugnò nel 1514 e il Governo della Libertà lo demolì nell’anno 1528. A ricordo il Comune di Genova nell’anno 1928 questo marmo poneva. Anno VI. 

ANGELICO FEDERICO GAZZO

A COMPAGNA

 

Articolo a firma F. Ernesto Morando, pubblicato sul bollettino n° 10 – ottobre 1930

 

Fu un dotto, fu un poeta; ma, quel che più vale, la sua vita fu quella di un santo.

Sia lecito dirlo schiettamente a chi lo conobbe abbastanza da vicino, e si onora dei lunghi anni di amicizia con Lui. La sua morte avvenuta il 22 giugno 1926 non lasciò risonanze di echi clamorosi in questo mondo troppo assordato dalle cateratte precipiti di procaccianti ed arrivisti, ed arrivati, ma il tacito amaro cordoglio nel petto di quanti poterono, in qualche modo, avere cognizione della sua sapienza in più rami dello scibile, della sua vasta e sicura dottrina in tutto quanto si pertiene non solo alle lettere nostre, latine e greche, ma pur a quanto si riferisce alle lingue romanze, morte e viventi, che egli conobbe tutte e padroneggiò da maestro; di quanti, soprattutto poterono apprezzare il tesoro ch’era in lui di nobile e, per quanto gli fu dato, fecondo altruismo.  Giovinetto ancora, Angelico Federico Gazzo vestì il saio francescano e fu destinato alle missioni presso gli indiani dell’Argentina e dei territori paraguayani ed orientali dell’Uruguay. Qui lo spirito del glottologo, che gli era insito, ebbe campo ad addentrarsi nello studio delle lingue di quelli uomini della Natura, di alcuna delle quali determinò singolari caratteri grammaticali e fonetici (ricordo l’esempio recatomi di una parola – tanta – che aveva tre significati differenti, secondo leggere varietà di pronuncia). Di questi linguaggi preparò vocabolarietti e appunti analitici e sintattici che credo andassero smarriti nelle avventurose vicende attraverso a quelle inospiti regioni.  Tornato in patria, si diede all’insegnamento e fu per anni parecchi nel Collegio De Barbieri, poi maestro nelle civiche scuole, partendo il suo tempo tra i doveri scolastici e sacerdotali (aveva conseguito la laurea in teologia e la consacrazione per la messa) e le cure degli studi che mai non intermise fino agli ultimi giorni della vita.  Per decreto pontificio venne dispensato dalla stretta osservanza della sua Regola, e gli si concedette di vestire da prete; del che, dopo tanti anni che ciò era in effetto, glie ne venne fatta colpa da un’alta autorità ecclesiastica, che voleva, pare, si disfacesse ciò che alla Curia di Roma era piaciuto si facesse. Quanto se ne afflisse il povero vecchio, ma come sopportò con sereno animo quelle amarezze!  Con questa esistenza tratta nella contenta austerità di una sicura coscienza, aveva potuto mettere da parte, soldo sopra soldo, circa quarantamila lire, una fortuna da Creso, per lui: e vagheggiava di lasciarla, alla sua morte, in opere buone. Un malvagio prete aggirandolo con arti che un tutt’altro uomo avrebbe facilmente penetrato sinistre - non lui che ebbe sempre il candore di un fanciullo - riescì a carpirgliela, dissipandola in malo modo. E si badi: questo io non seppi mai da lui, ma da sue confidenti persone. E quando osai parlargliene, se ne mostrò turbato e mi pregò di non tornare più su l’argomento, avendo egli di tutto cuore perdonato a quell’infelice.

Poiché, né occorrerebbe soggiungerlo, mai un istante egli pensò a denunciare lo sciagurato, nonché ai tribunali, neppure alla autorità ecclesiastica. A questo modo trasse in angustie i suoi ultimi anni, ritirato nel Convento della Nunziata, dove chiuse i suoi giorni.  Con l’amore degli studi linguistici, per tempo si svegliò in lui l’estro della poesia, così da imprimervi orme felici nell’italiano, felicissime nel volgare nostro, di cui conobbe, come niuno forse mai, la ricchezza, la venustà delle forme, la pittoresca pieghevolezza dell’espressione, delle immagini, il colorito sentenzioso ed arguto, l’humour, la festevolezza, la grazia squisita ma pur anche la vigoria nel rendere scultoriamente l’atteggiarsi del pensiero forte e solenne nei più disparati sentimenti dell’animo.

Dopo Giuseppe Ferrari, due illustri maestri, Pasquale Villari ed Ernesto Monaci, avevano rilevato l’importanza dello studio e della cultura dei dialetti nell’educazione letteraria d’Italia; ed oggi i postulati di questi illustri vennero trasformati in principi di illuminata pedagogia in tanta parte delle nostre scuole elementari; tali principi, il Gazzo avvalorava nell’introduzione alla sua Commedia de Dante di Ardighê tradûta in lengua zeneyze, della quale diremo in appresso. Oltre alla Divina Commedia, diede alla stampa una disquisizione teologico-dantesca Sulla sorte dei bambini morti senza battesimo, uno studio sulle Voci e maniere genovesi nei classici italiani e nell’uso toscano, e vari libri di ascesi. Fu dei pochi che rispondesse allo appello del Petrocchi, quando, per la compilazione del suo grande Dizionario della lingua italiana, si rivolse ai dotti d’Italia perché lo sovvenissero di consigli e di aiuti, fornendogli schede ed osservazioni preziose intorno a molte voci; del che lo illustre filologo pubblicamente lo ringraziava.

 

IL GIOVANE FRATE

 

Ma maggior mole di produzione sua giace ancora inedita; e tra l’altro un’opera importantissima, di cui mal si può porgere adeguata idea; la Grammatica della lingua genovese, la quale, malgrado la modestia del titolo, è per tante pagine un lavoro di filologia comparata, di un pregio trascendente i confini del soggetto propostosi.

Inedita è pure la sua traduzione in genovese della Vita nuova di Dante, nella quale tutta la parte poetica, sonetti e canzoni, viene riprodotta nell’ugual numero di versi del testo (come pur fece per la Commedia) e quella prosastica fu invece compendiata, conservandovi scrupolosamente l’andamento dottrinale e le forme scolastiche dell’originale. Inedito, da ultimo, un suo volume di poesie genovesi, parte originali, parte tradotte dal francese, dall’inglese, dallo spagnuolo, dal portoghese, dal provenzale, dall’italiano, da dialetti diversi. Sfilano così sotto i nostri occhi, come collane di perle sgranate, produzioni pregevoli dell’Angellier, di Henri Lasserre, del Lamartine, di Lope de Vega, di Hurtado de Mendoza, di Francesco Rioxa, del Gongora, del Rivas, dell’Iriarte, di Melendez Valdes, dell’Ochota, del Reyes, del Longfellow; e poi dal milanese, dal pisano, dal marchigiano, dal romanesco, dal sardo gallurese, dal provenzale, dallo slavo, ecc.

Tenui saggi ne vennero dati in luce, tra i quali, sul Corriere Mercantile, il poemetto del Mistral, Magalì nel quale l’onda nostalgica di un’accorata passione, sale e scende, sperando e disperando con l’onda soave e ansiosa, sorridente nelle lacrime del verso.

Tutte queste opere manoscritte, e nello originale, si trovano presso l’estensore di queste note, il quale ignora se ne esistono altre copie; ma una della Grammatica genovese, dovrebbe trovarsi depositata alla Biblioteca Civica.

Ma, come si accennava, l’opera sua capitale, è la traduzione genovese della Divina Commedia, che mi parve sempre riescita come lavoro di dotta filologia e di pura arte, ad un tempo. Dopo la traduzione della Gerusalemme liberata, fu questa la più grande compiuta nel genovese; ma quella fu di molti, questa di uno solo.

Inoltre, resistendo alla seduzione di esempi illustri – quello del Littré, per recarne uno, che tradusse il Poema Sacro in lingua d’oil, cioè nel francese antico – il Gazzo volle darci, pur nella ricchezza dei mezzi linguistici da lui posseduti, una versione in lingua viva, facendo palpitare l’arte e il pensiero di Dante in un idioma neo-latino balzante nella sua pienezza vitale dalle bocche di un milione di parlanti. S’intende che questo concetto, per lui fondamentale, intese nel senso più largamente comprensivo, usando la lingua in tutta la ricchezza dei suoi modi, mostrando quanto possa un idioma provinciale sapientemente e sicuramente maneggiato.

Infatti, più che con le ragioni della dottrina, mostrò, con quelle dell’arte “idioma nervoso, conciso, potente” il genovese.

Mostrò essere il genovese volgare italico derivato, come tutti gli altri, direttamente dal latino, e non corruzione o storpiatura di un italiano tutto ideologico (poiché il toscano stesso si trova nell’identica condizione di cose) ma vera lingua romanza al pari delle altre tutte parlate dai Balcani col rumano, all’Oceano, col portoghese; svoltasi secondo la propria indole e vivente di vita propria, con un suo proprio uso letterario e scientifico, integra, forbita e libera nella sua costruzione, accanto al volgare popolare, ricco, laconico e gagliardo; atta ad esprimere, con leggiadria e proprietà, i più alti concetti della mente come i più gentili e delicati sensi dell’animo, atteggiantesi a tutte le forme di stile, varia nella sua fraseologia secondo l’idea e lo argomento. Che se, come accade dappertutto, a fianco del vero e genuino dialetto cresce, e tende a sopraffare, un gergo bastardo con desinenze e modi che sono sconciature dell’italiano, sature di gallicismi e di altri forestierumi travolgenti la fisionomia di ogni parlata, spetta a chi usa tale strumento delicatissimo il penetrare nelle latebre vive e sempre vitali dell’idioma senza contaminarsi delle sozzure del gergo.

A rincalzo, giovi rilevare che la parlata genovese si trova tra quei volgari d’Italia che dal gran Padre Alighieri passati al crivello, figurano non tra quelli da gettar via, ma sì fra quelli che nel crivello sono rimasi; e, sommo onore, l’accompagnava alla toscana nel giudicarla. E nonché trovarla aspra, dura, presso che informe, come ritenuta da molti anche tra coloro che l’usano quale materna, l’appuntava, invece, di soverchia dolcezza per la prevalenza delle vocali nei suoi suoni; vocalismo che poi l’uso e l’evoluzione stessa del linguaggio hanno ridotto in giusti confini. Un chiarissimo filologo piemontese, ed elegante latinista, il professor Eusebio, ne rilevava tutta la italianità che si rivela specialmente nella sua costruzione, la quale, al contrario di ciò che avviene per altre lingue municipali si accompagna fedelmente a quella italiana aborrendo da qualunque inversa dizione o maniera grammaticale che all’italiano sia estranea, e ciò con ricchezza di suoni che mancano all’italiano, che mancarono al latino e che ebbe il greco.

La traduzione del Gazzo risponde sempre, in tutta la plasmatura, con la massima fedeltà alle forme del testo, senza rendersene pedissequa – scoglio gravissimo delle versioni dialettali – vale a dire, il frequente pigro ricalco per cui si torce il vernacolo ad italianismi neologici, che riescono mostruosità, onde giovarsi della rima già bell’e fatta, o per risparmiarsi lo studio dei modi vivi e proprii del linguaggio adoperato, i quali debbono rendere quelli del testo. Egli, invece, nell’austera coscienza del compito suo, piega agilmente il verso con novità di rima ad imprimervi il sostanziale concetto.

Alla dottrina somma si accompagna sempre austera coscienza dell’arduo compito assunto, agilità e pieghevolezza mirabile di versi con novità di rima: qui, in sostanza, abbiamo, con lo studio costante e sicuro del filologo, l’arte squisita del poeta che ha già fatto sue belle prove nella natia parlata. Frattanto, è degnamente osservabile che questa traduzione – la quale, meglio che in patria, venne apprezzata all’estero, dove dotti cultori della dantologia ne fecero oggetto di studio in riviste tedesche ed inglesi – venne compiuta con lo stesso numero di versi del testo: prova ad un tempo, della duttilità del linguaggio genovese e della padronanza che di quello ha chi si pose ardito a tanto cimento.

Occorre, adesso, esemplificare alquanto; ed arduo riesce tra tutto quello che si vorrebbe trascrivere.

In Inferno VII-12, l’arcangelo Michele fa vendetta del superbo strupo; supinamente capovolto fin qui in stupro, cioè in una metatesi senza sugo, anzi che non esiste. E sarebbe tempo di fare giustizia di questa sciempiaggine ingrommatasi nell’esegesi dantesca per cui la corte celeste si trasforma in una corte d’assise. Il più greggio buon senso, del resto, basta a dimostrare quanto sia impropria l’attribuzione di superbo al più vile tra i reati. Michele fa vendetta di un vero e proprio strupo, come dice Dante senza metatesi, senza inutili riferimenti al basso latino, ma con riproduzione italiana piena, assoluta del genovese stroeppa che vale proprio masnada, accozzaglia di cattivi soggetti, come erano appunto, gli angeli ribelli; il che dal Varo alla Magra, non ha mai fatto dubbio per nessuno se non forse per qualche ligure straniatosi troppo dai suoi. Nella traduzione di questo verso, il Gazzo non ha adoperato il pretto vocabolo genovese, perché glie ne venne a taglio un altro parimente efficace, espressivo, forte: özaddi, che è l’audaci ma più che nel senso italiano, in quello di audacieux francese, con una sfumatura tra di bravacci e di guappi, che è impossibile rendere in italiano. Ma la voce stroeppa è tanto sottomano al genovese che il Gazzo l’usa di frequente nella sua traduzione; per esempio: Inf. XV-16, XV-33, XVI nel sommario, XVI-5, XVIII-80, Purg. V-42, XVIII-136, e non cerco più in là.

Nel volgere in dialetto questo verso 12 del VII dell’Inferno, il Gazzo ha adoperato, invece, un’altra parola comunissima del linguaggio genovese, (tanto è vero che egli l’usa ancora più volte: Inf. V-66, IX-96, XV-54, Purg. VI-39 che è il luogo caratteristico come quello dove pur Dante l’usò, Purg. XXVII-78, Par. XVII-59, ecc.) la parola astallow, participio del verbo astallâ; e nuova cagione d’una nuova cantonata a tutti i commentatori, i quali sembra che di ogni dialetto d’Italia abbiano tenuto conto nei loro studi tranne che del genovese, assolutamente e concordemente negletto.

Il verso 39 del VI del Purgatorio: Ciò che dee satisfar chi qui s’astalla, che è d’intuitiva evidenza per qualunque genovese, anzi per qualunque ligure, e che ha già di per sé valore dialettale, tanto che il Gazzo potè renderlo quasi schematicamente così: Quanto ha da soddisfâ chi ki s’astalla, questo verso, diciamo, ha “mala luce” per i commentatori, i quali davanti a questo verbo astallare non sanno “che si chiamare”. E, cascano giù piattamente orecchiando: “s’astalla – ha stallo – dimora” facendo così dire a Dante una altra goffa sciatteria. Gli è che i commentatori non sanno il genovese, dal quale Dante tolse pari pari, insieme ad altri cento circa (come ne tolse da tutte le parlate d’Italia), questo vocabolo tuttora vivissimo; e chi qui s’astalla, vale: chi qui si ammansa, si mansuefa, si doma, con senso traslato. In senso proprio si riferisce ad animali bizzosi riottosi ribelli ridotti tranquilli e sommessi nella loro stalla con una, dirò così, pedagogia d’alta mano e violenta. Si noti bene ancora: che il senso traslato è però comunissimo quanto il proprio nel dialetto, per tutti coloro di cui si debbono medicare bizze e capricci scontrosi.

 

PADRE GAZZO NEL 1897

 

Dopo ciò, non è chi non veda la pittoresca efficacia e la muscolosa convenienza di questa espressione, nota per tutta la Liguria e tutti gli allevatori di stalloni e mercanti di vaccine, nonché ai domatori di discoli: ma che dico? all’ultimo contadino dell’estrema vetta appenninica. E Dante che l’aveva udita, più qui più là, o a Genova, o scendendo in Noli, o percorrendo la strada della Turbia, o salendo verso i dominii dei Malaspina, non era certo uomo da lasciarsela scappare; come non si lasciò scappare l’a pruovo nel senso di immediatamente seguace e non a lato, presso, vicino, come annaspano commentatori, accennando ancora vagamente ad una locuzione viva “nell’alta Italia”. Si considerino le rispettive posizioni in questo luogo, Inferno XII-93, di Dante e Virgilio e si vedrà come la locuzione non possa avere altro valore se non quello che ha nel genovese.

Ma se a ciò solo si fosse ridotta l’opera del volgarizzatore genovese, essa gli sarebbe riuscita non disagevole all’eccesso.

Mentre invece, come già fu accennato, volle con onesta baldezza, misurarsi corpo a corpo con l’originale, rinnovando così simbolicamente l’antica gran lotta con l’Angelo, alla quale amorosamente si era a lungo preparato. Egli, intanto, ha ben reso, secondo la recente luminosa interpretazione del Torraca il: Ove dovria per mille esser ricetto; con: Che pe tant’aegua a l’é un passo ben streytu; come con efficacia veramente dantesca rende il: e di fuor trasse la lingua come bue che il naso lecchi; col genovese: e a lengua de foea o tïa comm’i boe che in sce nayxe se perleccan. Il discendere di Gerione viene reso nel modo più sobriamente pittoresco: lê o va de sbiasciu; che dipinge assolutamente. O vira e o calla, traduce con la massima efficacia: ruota e discende.

Di questo canto della calata di Gerione è opportuno soffermarci a considerare un tratto che prende rilievo da una ben nota e originale similitudine:

Comme o farcon, frusto de xoâ, che mai

Ni o luddran visto o l’ha, ni de äe un brillo

O fa di ao farconê: “Oh mi! ti cäi?”

Stanco o va dove alò o l’ëa partiu arzillo

Rundezando e in disparte, cu’ o röbon

Mucco o se caccia pe avey faeto pillo

e tutto il pezzo sino alla fine del canto.

Qui tutto è appropriato con una padronanza della lingua, della forma, del verso, veramente magistrale. Frusto de xoâ rende ancor più stringatamente, se è possibile, il “che è stato assai su l’ali”. Il logoro e l’uccello si trovano appaiati nel testo come sintetico termine oggettivo dell’azione del falco; qui si sdoppia l’attività visiva del volatile predatore e ci si chiama partitamente a considerare la sua laboriosa impresa. E poi quel brillo de äe tutto nuovo e pur tanto idealmente collegato al senso intimo del testo, e di sapore tanto intimamente dantesco, non è davvero immagine alata? L’arzillo, a chi intende il genovese, è tanto balzante di vita, e grazioso, quanto lo “snello” del testo; il rundezzando condensa in una parola. le “cento ruote”; cu o röbon, tratto aggiunto, e non oziosamente, o per zeppa (torno a rammentare che la traduzione non oltrepassa mai di un sol verso, e canto per canto, il testo) ma, anzi, pennellata lumeggiante a chiaroscuro, porgendoci un rilievo tratto dalla stessa falconeria. Mucco pe avey faeto pillo traduce e chiosa, ad un tempo, il “disdegnoso e fello”.

Il pozzo di Malebolge, che “tronca e raccoglie” tutti gli scogli che ricidono gli argini e i fossi (Inf. XVIII-18) ci è messo scultoriamente agli occhi con una sola compressiva espressione: pigna di piloín.

E così qui tutto è della stessa forza: la rocca stagliala è sgroezza, la pietra di color ferrigno ci apparisce con eguale evidenza fusca e grixaña. In XVIII-64; il demonio “percuote” Venedico; qui ô scarlassa, lo scardassa; e se si pensi che lo strumento percuotitore è una sferza, si sentirà tutta la proprietà e la vivezza della immagine scelta. Contro un altro brancolamento di interpreti e chiosatori, è benissimo inteso in Inf. XXII-142 il “caldo sghermidor” con: a peixe a i ha spartii cu’o so brûxô. Il “prometter lungo con l’attender corto” di Guido da Montefeltro (Inf. XXVII-110) è scultoriamente reso così:

Bambordï, zinzanä, e poi sciâghe storto

Sempre ô desciù, ao mundo, o te fâ avey.

Ma bisogna conoscere appieno il genovese per apprezzare tutta la forza dei due versi, specie di quel “sciare” (perché il verbo non sarebbe italiano, se pur abbiamo in italiano il sostantivo scia?) tolto dalla terminologia marinaresca, di cui avvedutamente ha fatto così largo uso il Gazzo, parlando la lingua di un popolo che dal mare trasse tante locuzioni e immagini e sentimenti, insieme con tutta la sua grandezza. Qui stesso, il demonio che si rivolge a San Francesco perché non gli faccia torto, è presentato nella sua figura con un tratto degno del Callot: ûn cherubin con duï çimelli.

Immagine evidente e fondata sopra una contaminazione di due similitudini, introduce a proposito del traditore Bocca degli Abati, pestato dal piede del Poeta (Inf. XXXII-86) un puntapê in ta faccia rende il “forte percossi il pie’ nel viso” con una evidenza che solo ad un ligure salta agli occhi. O tacchezzava pe a mae soea, osserva; che sarebbe letteralmente: taccheggiava a proposito della suola (delle scarpe) che lo aveva colpito. Ma il verbo tacchezzâ, per quanto derivato da tacco, significa in genovese parlare irosamente, imprecare, bestemmiare ma in tono smorzato, quasi tra sé e sé. E in punta di bulino, nel canto seguente, v. 112, il “Levatemi dal viso i duri veli” è inciso così: - Levaeme ûn pö da i oeggi e cristallée.

Ma basti qui, ché l’andare più oltre ci sedurrebbe al di là d’ogni giusto limite.

Non senza concludere rilevando che con l’opera sua il Gazzo diede nuova conferma alla sentenza di Leonardo Aretino, proferita a proposito di Dante: “Ciascuna lingua ha la sua perfezione e suo suono e suo parlare limato e scientifico”.

VIDEO DEL PONTE SUL POLCEVERA

 

VIDEO DEL PONTE SUL POLCEVERA

 

Il Ponte di Genova sul Polcevera è ormai giunto alla fase finale di realizzazione. Di seguito si trasmette, con richiesta di pubblicazione sul vostro sito, il link al video di Salini Impregilo dove vengono mostrate le varie fasi di costruzione del ponte, in cui è stata applicata una tecnica molto innovativa per la realizzazione di questa grande opera, ormai in fase di completamento. 

 

Francesca Bronzi

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=Cos3QATqoaI&t=47s

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