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L’Annuario Genovese
Articolo pubblicato sul bollettino n° 7 – ottobre 1928
L’Annuario Genovese (l’antica guida del signor Regina) entra nel suo 114 anno di vita con la edizione testé uscita. La pubblicazione che oramai è considerata una vera e propria istituzione genovese dice giustamente nella sua prefazione: “Sotto la nuova veste abbiamo potuto ampliare ancora il nostro lavoro fino a raggiungere la mole di una pubblicazione il cui valore è ormai riconosciuto da tutti e ci è fonte di orgoglio e sprone a migliorare sempre. Non crediamo possa sfuggire neanche ai più distratti osservatori il lavoro da noi compiuto per la edizione che stiamo presentando, e solo che si vogliano considerare tutti i cambiamenti nelle Istituzioni che il Regime va continuamente sviluppando, e la cui impronta abbiamo ben fissata in tutta l’estensione maggiore, interpretando fino all’essenza dello spirito le alte idealità del Fascismo, che vanno concretandosi secondo le direttive del Governo; potrà essere valutato al suo giusto valore l’immane lavoro da noi compiuto al solo scopo di conferire una importanza sempre maggiore alla nostra pubblicazione, aggravandosi sempre più di spese e di fatiche. Ed anziché sfoggiare od ostentare il nostro aumento di volume, abbiamo cercato di concentrare la materia scegliendo i caratteri più minuti.
Il lettore troverà nella parte amministrativa registrate dettagliatamente tutte le nuove Gerarchie del Partito Nazionale Fascista, l’Opera Nazionale Dopolavoro, l’Opera Nazionale Balilla, tutti i Sindacati dei Datori di Lavoro distinti nelle singole Federazioni e Sezioni come i Sindacati dei Lavoratori con tutte le indicazioni delle Sezioni dipendenti.
Gli Usi Mercantili che si osservano sulla piazza di Genova sono stati elencati secondo il nuovo ordine stabilito dal locale Consiglio Provinciale dell’Economia e la ricchezza delle voci di richiamo dei due Indici rendono facilissima la ricerca di ogni Uso. Nuove per questa edizione e che seguono immediatamente gli “Usi” sono le “Regole di York e di Anversa, 1924” testo eminentemente marinaro, che interessa la nostra città, eminentemente “marinara”.
Il volume, che comprende oltre 2100 pagine, è una preziosa guida per tutti e sommo suo pregio è quello della massima diligenza in fatto di indirizzi e delle più disparate indicazioni.
Sinceramente ci congratuliamo coll’egregio direttore dell’Annuario Genovese, signor Vincenzo Tagini, pel grado di perfezione al quale ha saputo condurre la pubblicazione a lui affidata dai fratelli Pagano.
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Il Lunario del Signor Regina
Articolo a firma Emanuele Canesi, pubblicato sul bollettino n° 9 – dicembre 1928
Il signor Vincenzo Tagini, che dirige la secolare pubblicazione dei Fratelli Pagano, ha voluto farmi gentile omaggio dell’Annuario Genovese 1928-1929: un volumone che guai a lasciarselo cascare sulla punta dei piedi e che, rosso e grosso com’è, potrebbe anche far pensare a uno di quei taxi i quali oggidì formano il terrore del vile pedone in procinto d’avventurarsi nel tragitto che corre dal Teatro Carlo Felice all’imbocco di Vico Casana.
Oh quantum mutatus ab illo! Quale processo di crescenza, voglio dire, da quel che fu il Lunario del Signor Regina, poco più grande, nel formato, della Divina Commedia in edizione Diamante: emporio di profezie chiaravallesche, di barzellette, di epigrammi, di satire, di raccontini, guazzabuglio di pasquinate e di notiziole date tra il serio e il faceto; ma, quanto ad informazioni di pratica utilità in genere e a indicazioni di toponomastica cittadina in ispecie, zero, quando non si voglia tener conto della parte in cui è segnalato il genetliaco di Carlo Felice Re di Sardegna e dei Principi di Casa Savoia; la composizione delle pubbliche amministrazioni; i membri della Camera di Commercio; i varvassori della nobiltà e del clero e – cosa davvero importante, l’arrivo e la partenza dei corrieri:
CORRIERE Dl TORINO
Arrivo: Lunedi, Mercoledì e Venerdì, alla matt. colle lettere del Piemonte, Savoja, Svizzera, Francia, Olanda, Inghilterra, Spagna, Portogallo, ecc.
Parte: Lunedì, Giovedì e Sabato a 5 ore pomeridiane.
PARTENZA E ARRIVO DELLA DILIGENZA
Parte: Domenica alle ore 9 precise di matt. per la Lombardia e la Romagna, passando per Milano – Martedì, Giovedi e Sabato alle ore 4 di mattina per il Piemonte e la Francia.
Arrivo: Lunedì, alla mattina dalla Lombardia e dalla Romagna passando per Milano, Venerdì e Domenica alla mattina dal Piemonte e la Francia.
IL FRONTESPIZIO DELL’ANNO 1820
Ah, quel delizioso viaggiare pigiati, quasi impiombati entro l’arca spaventosa della diligenza, dopo il risveglio ante lucem, l’attesa nella rimessa, l’appello, la visita, il controllo... Ma si parte, a Dio piacendo, e via di galoppo in mezzo alla campagna, col sole che vi arrostisce, il polverone che vi accieca, le groppe dei cavalli che nello sforzo del traino vi salutano a ripetizione di colubrina, e nella dolce compagnia – putacaso – d’una madama franciosa tutta cincischi, tutta cernecchi, crepitàcolo di chiacchiere con lo spruzzo, che viaggia con la scimmia e il pappagallo; d’un Tedesco che fuma come un Sultano
Çerta fèuggia de marocco
Ch’a l’aspûssa de merdocco
(E de quello vermentin!...);
d’un Lombardo ciccioso, bracalone, che stronfia e ridacchia sconocchiandosi pingui provviste di mortadella e piacentino; d’un Inglese stirato sulle quattro punte, accigliato, infastidito, scocciato, che va ruminando goddemme e lamenti:
Con scì bella compagnia
Chi no staiva in allegria?
Mi ve lascio conscideâ!
Che belliscimo viaggià!...
Chi dormiva, chi runfava,
Chi tombando pizaggiava,
Chi reûtava, chi tosciva,
Chi stranûava, chi s’arviva,
Chi sospiava, e con rispetto
Solfezzava o sospiretto...
Azzunzeighe a mûxichetta
De cagnette e da scimietta,
Che sbraggiavan affammæ
Pe-i zazûin no comandæ.
O fischiâ do pappagallo,
O nitrî ogni pö ûn cavallo.
A carrossa chi scrosciva,
(E mi ammiavo se a s’arviva)
O lucciâ de due chitare
Prüxe grosse comme giare,
O Sô in lion, mosche azenin-ne,
Tanti fiati a-o streito insemme
Donne, bestie, ommi, giastemme,
Mi n’aveivo e stacche pin-ne,
E se n’êa pe-a convenienza
Davo o vaso ä Diligenza,
E me-a favo sempre a pê
Comme fà patron Carcagno
Bon-nasêua cö so compagno;
Finalmente, lode a-o Çê,
Emmo dæto fondo a Nêuve
Che s’ëa giùsto misso a ciêuve,
Né a me parsa manco vëa
De levâme d’in galëa.
Chì ghe saiva da inciastrâ
Un-na risma de pappê
A voei tùtto ben contâ,
L’invexendo di foestê,
L’imbarasso, e l’impazienza,
Che gh’ëa l’atra Diligenza
Chi vegniva da Milan
Pe andâ a Zena all’indoman;
Quanto sciato, e che caladda
Fan due Diligenze in stradda!
No ve conto ûn-na fandonia,
Paiva un’atra Babilonia
Co-a burasca che s’ëa mísso
D’ægua, vento, lampi, troìn,
Gragnêua grossa, oh che pastisso!
E che armâ d’invexendoin!
Chi dixeíva “ja”, chi “oui”,
Chi sbraggiava “ies”, chi “scì”,
Chi montava, chi chinava
Con passâ sotto i cavalli,
Chi ûn fangotto rebellava,
Rattellando co-i camalli,.
A sentî Madamma criâ
A-e sò bestie: “vite”, “allons”, [presto, andiamo, n.d.r.]
“Mes enfants”, “mon perroquet...” [bambini miei, pappagallo mio, n.d.r.]
E rispondighe un garçon:
“Son qua mi lo perrucchê,
No s’arraggi, Sciô Monsù,
Che ghe a taggio in t’un momento”.
Da-o gran rie no poeívo ciù,
E de veddia co-a chitâra
Sciortî fêua, a paiva a bazâra. [Befana, n.d.r.]
VIGNETTA DELL’ANNO 1820
Questo quadretto di vita irresistibilmente brioso e dinamico, l’ho appunto trascritto da uno di quei libercoli nei quali si sbizzarriva la Musa casalinga del nostro massimo poeta dialettale Martin Piaggio, o sciô Regin-na, pseudonimo che gli rimase appiccicato come una camicia di Nesso. Essi furono il veicolo della sua inesauribile vena di motteggiatore, di censore, di cronista. E in quello dell’anno precedente (1828) i lettori del Lunario, con la tenue spesa di poche scagge [monete antiche genovesi che valevano due soldi, n.d.r.], avevano potuto bearsi alle avventure aeronautiche del Sciô Martin, che per divertirli s’era cimentato a un immaginario viaggio in pallone, da Genova ai Bagni d’Acqui:
Fæto o primmo mæ viaggetto
In te nûvee angosciosetto
Pe-a grand’aja c’ho collòu,
E pe-o freido remondòu,
C’un pittín de scagabuggia [paura, n.d.r.],
Perché ho visto a Lûn-na duggia,
Tûtte e stelle cheite in mâ
Lûxî o Sô sens’ascadâ
Son stracuòu [sono stato trasportato, n.d.r.] con l’ancoa e o pægua,
Ma per miacoo salvo e san
In t’ûn porto dov’é un’ægua
Che chi a tocca a peja a man,
E a chi a piggia refreidâ,
A no fà né ben, né mâ.
E chi incontra lassù, alle famose terme aleramiche? Tutto un campionario di umanità in riparazione accorsavi a chiedere panacea ad acciacchi d’ogni natura e gradazione, ch’egli guarda con l’occhio dell’umorista, affermando che, se il Tasso avesse ficcato quella gente nel suo Bosco incantato, persino Rinaldo, in vederla, se la sarebbe battuta:
Ommi, donne, figgiêu, fratti,
Prævi, muneghe, sordatti
D’ogni etæ, d’ogni nazion,
D’ogni stato e condizion,
E o se pêu a raxon ciammâ
Un brillante e triste Uspiâ
Pe-a stranezza de maottie
Che fan proprio cianze e rie.
Lì gh’é sempre societæ
D’ommi intreghi e retaggiæ,
E de donne belle e brûtte,
Ma coa camoa quæxi tûtte.
Vegi e zuveni che van
Tûtti a un moddo differente;
Chi ranghezza, chi va cian,
Chi fà fô, chi no se sente,
Chi va drito, chi sciarròu,
Chi va a lorsa, chi arrembòu,
Chi a sätetti, chi in gatton,
Chi co-e scrosue [stampelle, n.d.r.] , chi ha o baston.
Lazzù spunta dui a brassetto?...
Pän scappæ da-o cattaletto!
Là ghe n’é ûn chi è cô do cöu
Chi va in caraghetta d’öu:
Questo o portan in spalletta
Tûtto ascôso in ta berretta,
Quello o l’ha e gambe cö trillo,
L’atro o schitta comme un grillo;
Chi va redeno e instecchîo
Chi chinòu, chi arrensenio;
Chi è mezz’orbo, strambo [strabico, n.d.r.], o guerso,
Chi ha e bertelle de traverso.
ANNO 1830
Così, dal 1815 al 1843, ogni anno che spunta offre al nostro poeta l’opportunità di consegnare ai torchi – sull’esempio di Schiller e di Goethe – le sue estrose filastrocche non sempre informate alla fantasia pura, ma il più sovente ispirate a finalità didattiche o a scopi di evoluzione cittadina in tema di viabilità, di edilizia, di estetica, di profilassi. Il castigat ridendo mores è la sua divisa; ma le sue tirate non dànno l’idea della stoccata; hanno piuttosto l’importanza del buffetto sulla gota e del colpetto sulla pancia, di chi vuole sgonfiar vesciche o far rientrare rotondità boriose, senza peraltro levar le berze [calcagni, n.d.r.] o lasciare traccie di ecchimosi a chicchessia. Non l’individuo da ferire ha davanti a sé l’Esopo genovese quando stabilisce paralleli e tira conclusioni dalle sue favolette; ma l’umanità claudicante come il Diavolo Zoppo a cui bisognava massaggiare muscoli e nervi, non già stroncare gli arti infelici. Di certo i contemporanei, ai quali era ben nota la bonomia del poeta, che in foglietti manoscritti aveva già dispensato, senza economia, poesie e poesiole d’ogni risma e tenore; di certo devono aver atteso come un dono di pan pepato la pubblicazione del primo Lunario che Martin Piaggio, travestito da Scio Regin-na, (una macchietta genovese diventato maschera sul teatrino dell’ex chiesa di S. Paolo in Campetto, dopo essere stato nella vita un berteggiatore [schernitore, n.d.r.] crapulone) faceva precedere da questo sonetto-programma:
L’é duï anni che fan o bûrattin
Da mæ personn-a ai Teatri per fâ rie;
Me ficcan dappertùtto co-e poexìe
Per fâ o Puriscinella e l’Arlecchin.
Primma m’han rotto o collo a son de vin,
Son chi ä Foxe coi osse impûtridïe:
N’ho mai çercòu nisciùn!... me çercan mie?
L’é giûsto che me vendiche ûn pittin.
Sciscignore!... a l’é dita; êuggio stampâ,
Un Lûnaietto apposta con de “Foette”,
M’êuggio mi ascì a-e sò spalle ûn pö demoâ:
Fö mette ûn avviso in te gazzette,
E per despëto ô vêuggio regalâ,
De badda a chi spendiâ dozze scaggette.
ANNO 1833
In verità che, nel dare alla luce il suo annuale opuscoletto, cui fu culla la tipografia di Paolo Scionico e carriêu [girello, n.d.r.] quella dei Fratelli Pagano, il Piaggio si proponeva ben altra mira che non quella di solleticare i suoi lettori sotto le ascelle.
Mettere il dito dov’erano piaghe cittadine, questo egli voleva; applicare cataplasmi, fossero pur cosparsi di causticissima senape, dove c’erano bubboni da purgare: nella famiglia e nella pubblica cosa. In altri termini, tener vivo il fuoco delle buone tradizioni paesane e domestiche; promuovere l’amore alla patria terra; spronare o infrenare, a seconda dei casi i padri coscritti [senatori dell’antica Roma, n.d.r.] additando loro, mediante l’esercizio della libera critica, il bene comunale da promuovere e il male da estirpare. Né si rivolgeva ad essi direttamente, il peripatetico brontolone; ma, seguendo il dettame del ligure adagio: diggo a ti sêuxoa perché t’intendi ti nêua, s’era foggiata una ipotetica comare in Cattainetta, rivendugliola di noccioline ai crocevia, nel cui capace seno egli versava la piena dei giòliti [lieti riposi, n.d.r.] e delle amarezze della Musa vernacola:
Ghe sei stæta Cattainin
In sciâ Ciasasa là dä Posta?...
Presto andæghe ûn pittinin
E piggiæ magära a posta,
Che veddiei che travaggin
Che g’han fæto ben ideòu,
Da per tûtto lastregòu
Con disegni ä biscocchin-na;
No gh’é ciù de monta e chin-na,
Passeggiæ a vostro piaxei,
Sei a sosto de grondan-ne,
Che se, a Ciassa de “Fontan-ne”
Ciù ciammäla no poriei
Porrieì dighe di “Fossoei”,
Che da-o “Culisseo” Negron
Mi me pâ che gh’aggian bon.
Ma do resto, ca-a Comâ
Mi no parlo per livô,
Ma per zelo, e patrio amô;
Né pretendo scindicâ;
Coscì avessan rimediòu
A-e “Facciate”... che peccòu !
De lasciâ l’imbuccatûa
Do straddon “Carlo Feliçe”
Coscì misera, e infeliçe
Senza ûn pô d’architettûa!...
Da ogni parte che ve giæ
No veddei che Lûxernæ,
Tanabêuzi [bugigattoli, n.d.r.], Barconetti,
Fûmmajêu, Teiti, e Teitetti
Che ve fan proprio patî.
No ghe vêu miga ûn mjon
Per levâ sto preboggion
Comâ caa, cose ne dï?
“G’han a peixe ae parpaggíéue! [lo stesso che “scagge”, n.d.r.]”
Brava!... Dæme due nissêue.
Sei mai stæta a passegiâ
Lazzù verso San Teodöu?...
Mi ghe vaddo e me resciöu
De piggiâ l’aja de mâ;
Oh che vista sorprendente!
Da Cittæ e de tûtto o Porto!
Gh’é ûn continuo andâ de gente
(E de votte qualche morto!...)
Che se a fusse ben tegnûa,
Anacquâ e un pö ciù allunghïa,
A vegnieiva sciù bell’äta,
Sempre a l’ombra se passieiva,
E ciammâ allôa se porrieiva
Con raxon sta Passeggiata
“Deliziosa, varia e amena”
E gh’andieiva tûtto Zena
Ancon ciù che all’Accassêua...
Diggo ben? o diggo mâ?
Se no diggo ben, Comâ,
Dæme solo ûn-na nissêua.
Ma, v’avverto, se g’andæ
D’in Fossëlo no passæ.
Perché a stradda a l’é tappâ
Da di Banchi de Mersâ,
Da Corbon-ne de Terraggia,
Da Chinette de Limoìn,
Da Montagne de Meloìn,
Da Buzzûmmi [frutta acerba, n.d.r.] pe-a Canaggia,
E atri imbrummi [ingombri, n.d.r.] senza fin;
Ghe fan tûtti lì a sò tappa,
Gh’é ciù pesci che n’é in Ciappa.
Frûta, funzi, êuve, verdûa,
No se pêu passâ a drittûa.
Oh che brûtta tolleranza,
Vergognôsa pe-a Çittæ!
E che erroî de concordanza!
No se fan manco nee schêue...
Dæme ûn callao de nissêue [tre nocciole messe a triangolo, con una quarta sopra, n.d.r.].
Me dixeiva mæ Meziavo
Che voi Donne, Cattainin,
Ne sei un-na ciù che o diavo;
Dìme dunque ûn pittinin,
Che o saviei, perché raxon
Lascian stâ sempre in Çittæ
Tanti pöveì non nostræ,
E stroppiæ che fan ghignon [avversione, n.d.r.]?
E perché no son bandii
E a-i sò Paixi fæti andâ?...
Avanzieivan de levâ
Quelle poche parpaggiêue
A-i nostræ... Comâ? nissêue.
. . . . . . . . . . . .
Quello fûmme? che fortô!
Che negressa! e che spessô!
Tûtte e case o fa vegnî
Neigre comme i fûmmajêu,
Lonxi ûn miggio ve sentî
Palpitâ e mancâve o coêu,
Un-na cosa chi fà orrô!
Me pä d’ëse in sciû vapô,
E poi dixan che se meue!...
Dæme presto due nissêue.
E quelli atri caruggin,
D’immondizie sempre pin,
E che mai nisciùn ghe spassa?
Oh che spûssa maledetta!
A l’é tanta pæsta sccietta!
E poi dixan che se mêue!
Dæme torna due nissêue!
E quell’atra spassatûa.
In te stradde da Çittæ?
Figgi cai, che precisûa,
No pàn stæte mai spassæ,
Comâ caa, cose ne dî?
Piggian çerti professoî
Che de “netto” no s’intendan,
Coscì san dove piggiâla...
Ma ghe n’é proprio da rie?...
Due nissêue, ma brûstolie.
E... ma basta..., addio, Comâ,
Allûghæ tûtte e nissêue,
Che servian pe ûn’atra votta,
Dunque strenzo troppo a scotta
Stæme allegra, Cattainotta.
ANNO 1834
E il trionfale epicedio [canto funebre, n.d.r.] sulla fine delle grondaie ch’erano la sua ossessione, il segnacolo in vessillo dei suoi non sempre inascoltati “mugugni”? Eccolo:
Addio, Grondan-ne, addio!... vatte a negâ,
Stillicidio de Zena giastemmòu!
Che per fâte da-i teiti disertä.
Me ghe son per dex’anni spolmonòu,
Addio!... coscì porriö ûn pö passeggiâ,
Lûxindo o Sô, sens’ëse ciù bagnòu;
Addio!... porriö coscì o pægua serrâ,
Finïo de ciêuve e doppo avei nevòu;
Addio!... che sotto i “toæ” [tettoie, n.d.r.] ciù no passiö,
Tante “mostre” de fêua veddiö retiæ,
Né a-e bûttëghe all’“orbetto” ciù accattiö;
Addio Peschee, Barchî, Fontan-ne! andæ,
Passa o tempo, v’aggueito, e ve scorriö
Fin tanto che ne sei tûtte scentæ.
Ma il Lunario, alla guisa di tutti gli altri almanacchi d’allora e di poi, era fatto di cento altre quisquilie: aneddoti, massime, sentenze, indovinelli, e, per ogni mese, le sue brave previsioni meteorologiche e mondane, dove il vago ed innocuo pettegolezzo veniva condito di sali più o meno attici [arguzie, motti di spirito, n.d.r.]:
“È questo il mese (gennaio del 1828) più allegro per i disperati e il più tristo per chi ha denari e famiglia e dipendenti... e relazioni galanti. Gli uni danno e gli altri ricevono. Guai a voi, o avari! Quante pillole amare da trangugiare! Oh vi son pur delle mance di cui non potete far a meno. La noja delle visite va crescendo. I buoni augurj, le proteste di servitù, di amicizia, a fior di labbra più che mai. Il carnevale si annunzia bene. I balli pubblici saranno però più allegri de’ festini privati. Gran progetti di mascherate. Le vecchie, di solito, ameranno travestirsi da giovani e “vice versa”. Mariti all’erta! Due vedovelle offriranno materia alle ciarle de’ maligni... e i maligni daran nel segno. Disperazioni e pazzie d’una moglie golosa. Vedrà la luce una nuova commedia che farà furore. Avrà per titolo la “Cronaca Scandalosa”. Freddo e ghiaccio straordinario: il termometro sotto zero. Scoperta di nuove piramidi. Incendio di un teatro. “Virtuosi” ben pagati... e fischiati”.
E sotto il suo bravo epigramma, come questo:
Quattro cose assai modeste:
Guerra, peste... fame... e bile
Letteraria e femminile.
Per gli altri mesi di quello stesso anno si pronosticava, fra l’altro: l’introduzione dell’uso che le donne facessero la barba agli uomini; la comparsa d’una balena e due sirene nel Mediterraneo; l’eruzione (facciamo a buon conto gli scongiuri di rito) d’un nuovo vulcano; la risurrezione dei cavalieri (quelle gioie!) serventi; la verificazione e ispezione sui pesi e le misure (o avevano già a quell’epoca, i nostri graziosi bottegai, la cara abitudine di scamotare [eludere, n.d.r.]?); un grave concistoro e discussione animata sui mezzi di ravvivare la pubblica curiosità e ripopolare (di già! di già) il teatro; una rispettosa petizione di chi paga per sedere e vedere dalla platea, contro gli enormi cappelli femminili che lo impediscono; una tregua di Dio fra Classici e Romantici, grazie a un buttero rimasto sull’occhio destro della settima figlia di un capopartito; il suggerimento ai bottegai di cancellare (cose vecchie!) le iscrizioni francesi ed inglesi sulle porte de’ lor magazzini, perché si considera quanto in una città italiana, sarebbe conveniente di usare la nostra lingua che vale pur qualche cosa, e quanto disonori una piacenteria mal intesa verso de’ forestieri; un diluvio di poesie (oh fatalità dei ricorsi storici!) mistico-trascendentali seguito da osservazioni sull’inutilità della logica e della grammatica, e (udite! udite!) una forte imposizione sui celibatarj.
ANNO 1835
Per un centinaio d’anni ancora, invece, l’acqua doveva scorrere sotto i ponti, prima che soddisfazione fosse data all’ultimo postulato del Lunario reginiano; di codesto libriccino dalle paginette ruvide e oramai ingiallite, che ad ogni nuovo anno i nostri bisavoli aspettavano come la più ghiotta delle strenne, trovandoci di che passare allegramente le ore della veglia invernale, nella cerchia della famiglia radunata davanti al caminetto aristocratico o attorno all’umile braxëa.
Nella stanza, dove la luce fioca della lumeretta creava ombre gigantesche, ad ogni poco il lettore dava il segnale della risata, e ad essa faceva eco immediato uno scroscio d’altre risa su tutti i registri. Ma i vicini di casa potevano dormire sonni tranquilli, ché i muri divisorii avevano lo spessore di qualche spanna e i rumori morivano lì. Poi è venuta, purtroppo, la moda dei mattoni a coltello; e sono venuti il fonografo, la radio, l’iradiddio dei rompiscatole internazionali. Eh, ne leggeremmo delle belle se fosse ancora concesso di metter penna sulla carta al vecchio borghese che da quasi cento anni dorme il Sonno eterno nella chiesa dei Cappuccini,
Che visse con gran stento
Pe-a famiggia e per l’önô
Ma chi é morto assæ contento
Confidando ne-o Segnô.
Poiché egli, come fu amantissimo della domestica quiete, ebbe una vera fobia per gli assordanti rumori della strada.
Basta, a sincerarsene, scorrere i volumetti del suo Lunario, rivista d’un trentennio di vita genovese, denso dell’ingenuo folclore di un secolo addietro, da cui, leggendo, ci sentiamo fasciati come da un alone di patriarcale nostalgia.
Ora io me lo contemplo, questo nostro mediatore-poeta, nella fotoincisione che precede l’opera omnia, con quel suo visetto scortato da scopettoni denutriti; gli occhietti che sembrano, anche nel ritratto, irrequieti come due pulci in libera uscita; il collo solidamente protetto dal muro delle lattughe e dall’antemurale del bavero a forte altimetria. Dalla sua fisionomia traspare con evidenza pure il suo mondo interiore: la signorilità, la placidezza, l’arguzia, la ghiottoneria e, sopratutto, la coscienza a posto: cattolico militante ma non bacchettone; strettamente osservante del digiuno nelle vigilie comandate e, a suo tempo, sibarita da refettori frateschi; patriotta immune da tabe politica; mentore senza pedanteria; satirico senza veleno da acidi urici; il quale sapeva abilmente comportarsi col guardinfante del pari che con la tonaca, col pescecane di Banchi egualmente che col bozzolaro. Quanto al resto, fin troppo ossequiente all’imperativo categorico del crescite et multiplicamini, ché la sua collaborazione con Teresa Bianchi, arricchì la casata di ben undici esemplari, dei quali fece poi larga concessione al velo e alla cocolla [abito monastico, n.d.r.]. Il suo cospicuo contributo alla demografia non era tuttavia sufficiente per farlo ammettere a fruire di certe franchigie che allora il R. Governo accordava a chi aveva raggiunto la dozzina di figlioli. Ed ecco, in proposito, una sua supplica a Re Carlo Felice, al fine d’essere abilitato al godimento del sospirato beneficio:
Sacra reale Maestæ,
Ciù no pêu sperâ sto poæ
D’arrivâ a compì a dozzenn-a
Perché o passa a çinquantenn-a
E de ciù ûn brasso stroppiòu
Perché rotto, e mâ cûrou,
Chi o tormenta nêutte e giorno,
Né o pêu dâse ciù d’attorno
Comme primma e galoppâ
Da onest’ommo, e fâ o sensä:
Gran disgrazia chi o roziggia,
E fatale pe-a famiggia.
Ah! Maestæ, che sei ciammòu
Poæ do popolo, e adoròu,
Che ne-o nostro chêu regnæ,
Exaudî questo bon poæ,
Consûltæ o vostro gran chêu,
Fæghe grazia d’ûn figgiêu
Che da-o Çê ve benedixe,
Consolælo co-e “franchixe”
Che, vegnûo meno infelice,
O preghiä l’Onnipotente
Co a famiggia eternamente
Pe-o bon Re Carlo Felice
Che a nisciún mai grazie nega.
Altrettanto castigato nel discorso che nobile nel sentire, Martin Piaggio era puranco lesto a ripagare di moneta grossa qualche lingua sbardellata. Sicché a me è sempre piaciuto identificarlo con quel personaggio d’un suo sonetto, il quale, avendo pestato incautamente i calli a una virago da verziere e sentendosi da questa, inviperita, dar della capra:
No son crava (o ghe rispose)
Ma scommetto mêzo scûo,
Che se foîse vostro maio
Sæivo becco de segûo.
MARTIN PIAGGIO (da Wikipedia, n.d.r.)