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Capitale di un turismo di massa e di un’offerta di servizi spesso di basso profilo

ROMA è OSPITALE?

di luigino Filippi

(da www.lamadia.com su gentile concessione)


Lo vediamo attraverso i suoi alberghi più noti e le sue cucine

In una Capitale come Roma, con attrattive monumentali di straordinaria entità, si può ben capire come il buon vivere costi caro. Comprensibile, anche se non condivisibile, anche il fatto che il profluvio di cose pregevoli di cui è ricolma la città comporti una certa assuefazione e indifferenza, così come il fatto che gli abitanti stanziali siano abituati al forestiero e gli riservino solo lo spazio indispensabilmente necessario a servirlo senza necessità di troppi convenevoli, bastando aggiungere, nei giorni “buoni”, qualche sorriso.


Eppure chi giunge a Roma per turismo è preparato sin dall’arrivo a considerare “very pittoresco” il comportamento del mondo di strada, così come è preparato ad accettare la scarsa cura dei particolari e la sbrigatività, anche nei rapporti interpersonali dei Romani de Roma, convinti da sempre in cuor loro (e come non capirli ed invidiarli?) di esser ancora nella “caput mundi” e di poter vantare una sorta di superiorità rispetto al resto del mondo.
Ma negli alberghi top, dove il folklore è meno accettato, la “musica” è diversa? Gli alberghi a quattro stelle romani garantiscono i livelli dei concorrenti europei? A quale livello è l’accoglienza, anche nei particolari? Capita, come in tutto il mondo, che per far accettare un cagnolino si debba fare il “giro delle sette chiese” e quei pochi alberghi che si degnano di accettarlo, ghettizzino il cliente in stanze più spartane,  senza neppure gli scendiletto? O che ci si debba sfacchinare il bagaglio dall’auto mentre l’addetto, imperturbabile, fa finta di non vedere? O che venga richiesto di firmare preventivamente ed in bianco il modulo di addebito della carta di credito? Che le chiavi magnetiche siano odiose nel loro funzionamento? Che la stanza abbia odore di stantio? Che gli armadi abbiano poche grucce e per giunta ad uncino, a prova di pazienza per staccarli e di ripetute manovre per riappenderli? Che i piani d’appoggio orizzontali siano sempre troppo pochi? Che manchi sempre un gancio uso appendino e qualche asciugamano in più in bagno? Che il portiere d’albergo sia troppo sbrigativo? E’ proprio quest’ultimo il vero “front office” che spesso fa (o disfa) la soddisfazione del cliente, vero motivo aggiunto per il ritorno (o meno) degli ospiti e per quello “indotto” dei loro conoscenti, “veicoli” pubblicitari fedeli e persistenti negli anni.
Ed anche: a quale livello si colloca  l’accoglienza al ristorante degli hotel? Ormai sempre più spesso l’ospite, stanco della giornata romana, ama restare in albergo la sera. L’offerta è ferma alla solita cucina internazionale d’albergo, sempre e ovunque uguale anche nei profumi che si percepiscono entrando in sala? E’ ferma al servizio di camerieri dal via vai veloce avezzi alla routine? Oppure il servizio sa indurre l’ospite a “fermarsi in casa”?
Abbiamo testato quattro alberghi centralissimi di grande affluenza dove, oltre a persone in giro per affari, soggiornano anche gruppi, vacanzieri, ospiti eterogenei. La nostra impressione è che i cuochi possiedano l’ambizione di fare meno cucina “d’albergo”, ma che talvolta si scontrino con la realtà di chi provvede a forniture obbligatoriamente standard. La loro professionalità, fortunatamente, supplisce al pericolo di estendere la standardizzazione anche ai piatti.
L’albergo rappresenta la memoria storica della Roma culturale e artistica, da sempre punto di incontro della società internazionale, grazie anche al gran numero di saloni e ambienti piccoli e grandi adatti per conferenze, conventions e meetings. Le sua camere, di grandi dimensioni, sono piacevolmente datate ma riattate con i comfort attuali per quanto riguarda gli ampi bagni, dove l’unica concessione all’antico è costituita dai termosifoni in metallo con splendidi rilievi. L’affluenza generale nell’hotel è rilevante ed i tre concierge hanno il loro bel daffare.
Nel complesso l’albergo è lindo e ben funzionante, con buona accoglienza anche ai piani.
La sala rettangolare dell’austero Rossini Restaurant, è intimo e di capacità limitata rispetto all’entità del suo grande patio semicoperto (ed al numero di camere dell’albergo); ha tavoli rotondi dai dignitosi abat-jour con fiammelle, sedie classiche e comode, nessun tappeto, tovaglie crème, lampadari e applique eleganti che assicurano una perfetta illuminazione alla sala dalle pareti immacolate, interrotte soltanto da un quadro, una specchiera e da belle tende azzurre con giglio di Firenze in oro alle finestre che guardano verso il giardino interno.
Claudia, direttrice di sala di coinvolgente e genuina spontaneità, qui da una decina d’anni, forma ormai quasi un tutt’uno con il locale e fa “filare” il servizio con occhio di attentissima professionalità, nell’unico intento di obbedire ai desiderata del cliente.
La carta cibi e ancor più quella vini sono brevi, (ma vale la pena evidenziare che nelle grandi etichette i prezzi sono invitanti: un Krug costa 150 euro). L’offerta gastronomica propone salmone affumicato con crudo di spada e julienne di verdure marinate, la leggera crema tiepida di porri e porcini, ma ciò che emerge nettamente è la carne e segnatamente il medaglione di vitello alla Rossini, che del resto è il loro piatto storico.
Da sottolineare che ai clienti che soggiornano qui si concede una riduzione rispetto ai prezzi esposti, che variano dai 12 ai 24 euro a portata.
Oltre la piazza della stazione ferroviaria Termini si trova l’albergo più geograficamente alto dell’intero centro di Roma, costruito negli anni ’30 con tecniche ammirevoli anche secondo i canoni di oggi, in perfetto e razionale stile classico solenne, con interni art decò, scaloni da scuola di architettura, bei contrasti tra i toni freddi dei marmi pregiati e quelli più caldi delle boiserie intarsiate. L’accoglienza è perfetta, e la nostra stanza 901, arredata in stile, con piccolo corner uso ufficio dotato di computer, si affaccia sui tetti di Roma.
Il momento giusto per accedere al Roof è al tramonto, quando la luce cambia e Roma s’accende! La terrazza ristorante è immersa nel cuore “vivo“ di Roma; da qui, oltre a panorami lontani, si gode anche la bellezza delle luci del traffico del centro, il cui rumore peraltro, a 50 metri di altezza, non giunge affatto, pur essendo immersi in pieno nella zona più trafficata della città.
La terrazza ha sette tavoli coperti ed il doppio all’aperto, pavimenti in ceramica verde, illuminati con faretti a soffitto, grandi candele ai tavoli, tendaggi a fiori, tavoli con tovaglie rosse e coprimacchia crème con eleganti bouquet di rose bianche e gesophiòla, comode sedie classiche anch’esse rosse.
L’ accoglienza è calorosa e simpatica e prosegue con un servizio capace, molto attento anche ai particolari. La carta del ristorante è formata da una ventina di titoli dei quali abbiamo apprezzato soprattutto i piatti del n° 1 dei piatti alla lampada, Marco Cioffali: tagliatelle al salmone e agrumi, Gamberoni al Pernod, Medaglione di vitello al Calvados e mele, Crèpes Suzette.
Anche i prezzi di insieme (di media 18 euro a portata) sono ragionevoli, e comunque certamente tra i migliori rapporto Q/P degli alberghi top di Roma.
Al confine di Villa Borghese l’hotel - costituito da 175 camere di cui il 20% suite, con oltre 100 addetti, attorniato dal proprio parco botanico con piscina olimpionica, attrezzato per congressi sino a 1.200 persone e ricco di boiserie, mobili pregiati ed arredi decisamente sontuosi ma di buon gusto - la ristorazione è gestita in sale modulari con capienza a partire da una trentina di coperti, con anche un grill estivo a bordo piscina. Un particolare importante: il Pauline Restaurant non è mai destinato a banchetti. Qui la sera giungono le note soft di una pianista dall’adiacente bar molto glamour dove l’ offerta di aperitivi distillati è ragguardevole. Al bravissimo direttore di sala ed al servizio non sfugge alcun particolare: non mancherà mai il pane e il bicchiere viene altrettanto attentamente rabboccato. La prima pagina del menu indica le “Golosità Uniche”, tra le quali abbiamo scelto il pesce spada alla ghiotta con cous cous al limone e menta; abbiamo poi proseguito con le “notevoli” morbidelle di ricotta e caponata di melanzana in agrodolce; tra i primi, semplici ma perfetti anche nelle cotture e temperatura di servizio, i paccheri al ragout dell’orto e salsa di fiori di zucca, seguiti dal generoso trancio di spigola al vapore e salsa di fave e piselli.
Nelle carni il classico carré d’agnello con mentuccia e frittatina di cipollotti e zucchine. Come dessert, per gli impenitenti inesausti, c’è sempre il salvagente di un buon ananas alle spezie e sgroppino di limone. La carta vini è all’altezza del locale.
Il buon menu vegetariano di quattro portate costa 70 euro, alla carta si spendono sui 100 euro per quattro portate.

VISTA SULL'UNIVERSO. E SU BUONI PIATTI

E’ semplicissimo trovarlo. Dall’ alta Via Veneto si scende per un centinaio di metri per Via Porta Pinciana dove si colloca questo albergo, le cui sale d’ingresso potrebbero far parte di un “set” Roma Classica ed Opulenta, che comunque nell’atmosfera romana risultano del tutto ben contestualizzate. Ma quando l’ascensore vi porta al settimo piano, l’ambiente cambia ancora, completamente. Dalla terrazza, in parte coperta, ecco il grande panorama di Roma: Monte Mario sullo sfondo, la cupola di San Pietro, le sommità di Trinità dei Monti.
Il locale è il regno del grande Bruno Borghesi, storico direttore di sala nei ristoranti di Roma di maggior charme negli ultimi decenni, con professionalità consumata e savoir faire impareggiabili. Il pianoforte in sala è talmente discreto da rimanere un lontano sottofondo di successi romani, italiani e internazionali, che richiamano atmosfere da Dolce Vita ormai lontane, ma che, se gradite, è quasi inutile cercare altrove a questo livello. Le mise en place e l’insieme sono ovviamente curate in ogni particolare.
Il cuoco svolge degnamente il suo compito con una carta breve di una ventina di proposte, testimone di una cucina che non punta troppo sugli “archivi” di dispensa e sa trattare il cibo, anche se si attesta su canoni classici, altrove oggi abbandonati. Tartare di tonno, spigola e scampi con cous-cous al Limone d’Amalfi, riso al salto con pistilli di zafferano, carciofi croccanti alla fonduta di Parmigiano; scaloppa di spigola arrosto con cannolo, patate e germogli. Al dessert è interessante la scelta dei formaggi “del nostro Paese”. La lista prenotazioni è lunga, meglio chiamare per tempo, preparando, s’intende, 150 euro, somma adeguata ad uno dei locali più affascinanti nella movida di Via Veneto, ma lontano dai relativi suoi clamori, in un tavolo con vista sull’universo.

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