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I TEATRI DI GENOVA NEL 1932

IL TEATRO “APOLLO”

 

Articolo a firma E. L. D. pubblicato sul bollettino n° 10 - Ottobre 1932

 

 “Dove si divertivano i bisnonni...”. È il titolo che il Corriere della Sera dava or non è molto, ad un suo genialissimo capo-cronaca, su Milano che scompare. Da esso noi togliamo lo spunto per dire alcunché di un nostro vecchio teatro popolaresco, che la vastità e rapidità di un sapiente rinnovamento edilizio di Genova, stanno per dissolvere in macerie e cancellare forse dalla nostra memoria...

“Sono appunti – dice il confratello milanese – che non trascurano di accogliere aneddoti gustosi ed inedite curiosità, scovati nella memoria di un sopravvissuto, e che opportunamente coloriscono, dei teatri di una volta, la vita varia, pittoresca, irrequieta e, con essa, il costume, la tradizione e i gusti del tempo...”

 

“Sciö Corbellin... l’Inno, l’Inno!”  Era il grido – e non v’ha a Genova chi nol ricordi – che sovente risonava sotto l’annerita volta del popolaresco teatro, quando ne dirigeva l’orchestra il mite e buono M.o Giuseppe Corbellini, già professore di violino nel civico Istituto di musica. Per cui l’“Apollo” diventava anche teatro di dimostrazioni politiche, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione.

E il paziente maestro, che conosceva l’umore del suo pubblico, non si faceva ripetere l’invito, ma subito attaccava il fatidico inno, che egli doveva ripetere altrettante volte, quante ne talentava al loggione, il quale lo accompagnava col canto, colle grida, cogli applausi e coi fischi. E questi non cessavano fino a che “ö sciö Corbellin” non si voltava sulla sedia e colla bacchetta faceva atto verso i musicanti, come a dire: “La colpa non è tutta mia”, mentre i musicanti, a lor volta, segnavano il maestro, come per declinare la responsabilità... del trionfo.

 

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TEATRO APOLLO – La facciata in Via Borgo Lanaiuoli

 

Il pubblico dell’“Apollo” non si potea dire davvero un pubblico disciplinato, specialmente quello del loggione, ove era tutto un formicolio, un agitarsi confuso nella penombra, una massa nera come di anime dannate in una bolgia dantesca, non ostante lo si chiamasse in gergo teatrale: il paradiso. Un pubblico che era uso manifestare i propri sentimenti con grida, urli, fischi e imprecazioni; e che, quando si commoveva alle vicende del dramma, non risparmiava epiteti ingiuriosi all’artista costretto ad interpretare la parte del tiranno, quando non erano torsoli di mele, buccie d’arancio ed altri consimili proiettili improvvisati.

Curiosi erano i battibecchi, che alcune volte sorgevano fra l’attore ed il pubblico, uno dei quali – da me presenziato – parmi valga la spesa di essere riferito:

Si rappresentava il “Trovatore”. Un disgraziato armigero impacciato sotto la lunga cotta d’armi che gli scende fin sulle scarpe inzaccherate, con un’enorme alabarda in pugno, fa la guardia al castello, misurando il palcoscenico a passi lenti e cadenzati. Quando una voce dal loggione viene a rompere il silenzio, che in quel momento regnava, generale: “A Naön, ti fäe i passetti, eh!...”. L’armigero alza la testa e, di sotto l’elmo di cartone argentato, dà una occhiata torva al loggione donde partì la voce canzonatoria. Ma questa, imperterrita, continua: “A Naön... ti-i paghi un po’ i puffi?...”. A questa seconda apostrofe l’armigero si ferma di botto e, volto al loggione: “T’ho conosciüo t’ê Caracalla, valà che se vediêmo de feüa...”.

Ma uno di quei suoni da trivio che i toscani chiamano trullo e i genovesi “gniere”, cuopre la minaccia del Naön, mentre “o sciö Corbellin” dà colla bacchetta il segnale, e il “Trovatore” dalle quinte attacca il “...deeserto suulla teerra...”.

Quello era un trovatore proprio sui generis. Il tenore avea certo perduto qualche dente in gioventù, poiché di quando in quando emetteva dei sibili che ricercavano le viscere, sibili che toccavano il diapason, quando egli cantava il patetico

“Scontro col sangue mio

“L’amor che posi in... tre

“Non ti scordar di me

L’e un’ora, addio...”.

 

Quello “scontro” e quel “posi” erano così sibilanti, che pareva uscissero dalla sirena di una locomotiva.

Ciononostante, del calunniato motivo, il loggione chiese il bis, cui seguì un coro di invettive all’indirizzo del povero “sciö Corbellin” che, non tenendo conto del bis richiesto, continuava nello spartito.

Ma anche al pubblico dell’“Apollo”, come un giorno alle gracidanti rane, dopo il re travicello, Giove mandò il serpe, rappresentato dal Maestro Milanesio, succeduto al Corbellini, nella direzione dell’orchestra. Il Milanesio, giovane, forte, aitante della persona e pronto ad ogni sbaraglio, non tardò ad avere ragione dello irrequieto “paradiso”, ove egli non esitava a salire e a prendere a scapaccioni gli insolentì disturbatori. Il Milanesio morì in seguito a due rivoltellate sparategli da un suo collega d’orchestra.

Ma or gli è tempo di dire alcunché degli artisti, che si avvicendarono sulle scene del popolare teatro.

 

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TEATRO APOLLO – Veduta generale dal palcoscenico

 

L’“Apollo” venne aperto ai 18 dicembre 1853 coll’intervento del mago del violino, Camillo Sivori, l’Orfeo genovese; ma divenne presto favorita tribuna ai riboboli degli Stenterelli, Miniati, Landini, i due Niccoli ecc., arguta, e salace maschera fiorentina, introdotta a Genova per primo da Bartolo Zanobi “flagello degli ipocriti”, “spia per far del bene”, “finta donna per iscoprire delitti”, ecc. ecc., e tutto questo in una sola sera, come annunciava il manifesto.

Ma il pubblico dell’“Apollo” era al colmo della gioia, quando sull’orizzonte del teatro spuntava il naso di Odoardo Miniati, i piacevoli, spiritosi – un po’ scolacciati – stornelli del quale e i suoi dialoghetti improvvisati col pubblico, a sipario calato, facean sbellicar dalle risa. È una derrata così preziosa il buon umore!

Quando il Miniati facea la sua abituale serotina comparsa al piccolo caffè limitrofo al teatro, si formava dinanzi ai vetri una siepe di gente, che se lo divorava cogli occhi, il suo Stenterello, e ne seguiva ogni movimento.

 

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ODOARDO MINIATI

 

A proposito dei suaccennati dialoghetti fra palcoscenico e platea, di quella forma di affettuosa corrispondenza fra attori e pubblico così famigliare al Miniati, mi sovviene quello che scriveva, il “Dopolavoro Filodrammatico”, discorrendo di quel giovialone di Luigi Duse, di quell’artista, per genialità insuperabile, del quale siffatti dialoghetti erano una prerogativa.

In essi, dice il “Dopolavoro”, il Duse discorre col pubblico degli interessi di casa sua, con una famigliarità e comicità che innamorano. E uno ne cita di questi dialoghi, ch’è un vero gioiello:

Pubblico: – Volemo Gigi, volemo Gigi Duse... fora... fora!”.

L’artista: – So quà, so quà... Cosa comandeli de mi?... ecc. (cerchino i lettori il “Dopolavoro”, leggano questo dialoghetto... e poi me ne diranno le loro impressioni).

Ma ritorniamo al nostro caffè prima che si raffreddi – e al nostro Miniati che sta sorbendolo... Chi non ha visto Miniati sul palcoscenico dell’“Apollo” con quei suoi occhi tutta arguzia, cerchiati di nero, colla parrucca liscia, – codino dritto all’ingiù – col giubbotto nero e il panciotto a fiorami, coi calzoni rossi, colle calze a striscie bianche e nere e cogli scarpini lucidi con fibbie... Chi non lo ha sentito cantare quel suo trito e ritrito ribobolo sulle donne che nottetempo visitano le tasche del marito per trarne i quattrini, ribobolo che finisce col bisticcio:

 

“Prendete da me mariti un parer sano

  Dormite sempre colla borsa in mano”.

 

Chi non ha visto e sentito tutto questo, non sa che sia l’arguzia personificata.

Il Cocchiara, nell’ultimo fascicolo (N. 955) del “Giornale Storico della Letteratura italiana”, rievoca il nostro Stenterello e le sue stenterellate (quelle che noi udimmo più volte all’“Apollo”).

Eccone alcuno:

– Gli si propone di fare il soldato per “coronarsi d’alloro”. Ed egli: “preferisco l’alloro coi fegatelli”.

– Alla fidanzata chiede quanto ha di dote. Risponde essa: “Circa scudi quattromila...” e lui: “Oh dì, non avresti quattro soldi da darmi in conto di dote?...”.

– Se la fidanzata gli domanda: “Mi sarai poi fedele?...”. Risponde: “I’ farò il possibile”.

– Il cortese pubblico genovese “estero e campagnolo”, egli così solitava invitare a teatro:

 

“Signori genovesi levatevi il cappello

  Nel legger quest’avviso che a voi fa Stenterello”.

 

E il soggetto della rappresentazione era: “Roberto il diavolo”, con Stenterello cantastorie, condannato alla forca, scudiero per caso, procaccino amoroso e consolatore delle donne tradite...

...Per quanto il Giusti riprovasse le stenterellate, che chiamava eloquio piazzaiuolo:

 

“Zitto l’equivoco

Di Stenterello

Che sa di bettola

E di bordello...”

 

pure il Mercey scrive: “Al tempo della Repubblica di Firenze, Stenterello viveva nei palazzi e s’appellava Macchiavelli – Boccaccio – Aretino – Poggio..., poiché Stenterello è il piccolo figlio, un po’ degenere, di tutti questi spiriti bizzarri... Ora il povero Stenterello si è ritirato in uno dei più vecchi quartieri di Firenze, in un teatrino che prima fu Granducale. Era un po’ sudicio. Non importa. Stenterello vi si ficcò egualmente, ed è ancor là che trae (prezzo del biglietto c.mi 28) seralmente il suo popolino, che l’intende, lo comprende e l’ama...”.

Oltre alle compagnie fiorentine degli Stenterelli, il pubblico genovese salutò sulle scene dell’“Apollo” Gustavo Modena, Tomaso Salvini, Ernesto Rossi, Ermete Novelli, la compagnia milanese con Ferravilla, la napoletana con Scarpetta, la veneziana con Zago e Privato, nonché la famigliarissima Compagnia Subalpina del cav. Toselli, fondatore del Teatro Drammatico Piemontese, di cui erano eletta parte i Ferrero, la Rossano, il Civallero, il Vaser e quel caro simpaticissimo artista che fu Enrico Gemelli, l’inarrivabile interprete delle “Miserie d’ Monsù Travet” e dei “Fieui d’ Balilla”.

 

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GUSTAVO MODENA e TOMMASO SALVINI

 

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ERNESTO ROSSI e ERMETE NOVELLI

 

E tutti questi artisti, gli habitués dell’“Apollo” conoscevano per nome, sapevano ove essi abitavano, la trattoria ove pranzavano e il caffè ove solevano bazzicare; s’era formato fra pubblico ed artisti una tal quale famigliarità anche fuori di teatro. Quando questi passavano per la popolosa via dei Lanaiuoli eran segnati a dito: “Ti ö veddi quello là, ö l’é ö Gemelli”; “Te là ö Varvello, quello c’ö fa coscì rie”...

Nel loggione poi era tutta una camaraderie, si conoscevano l’un l’altro, si chiamavan per nome e prima che cominciasse lo spettacolo, conversavano ad alta voce da un’estremità all’altra, mentre v’era chi apriva il dizionario delle voci della piazza, in voga; per cui al “Ti à molli?” rispondeva un “A-ö l’è lê”...

Ad un “Maìn che neútte”, facea eco l’“Isa Cesira”... e vi si udiva il vieto: “Nö se porriä”... “Saian calunnie”... ed altre insulse frasi dell’argot popolare... mentre si sentiva cantare il couplet [strofa, n.d.r.], allora in voga: “Viva Portoia e Prè e i povei de l’Abergo”. Finché non si levava una voce autorevole: “A finì un po’ battusi!...”. E fino a che, a rompere la penombra che regnava lassù (un grado meno dell’oscurità), compariva “ö luminaio”, accolto con grida, lazzi ed apostrofi non sempre castigati e gentili, mentre “ä Marinn-a de paste”, si aggirava fra quella marmaglia col suo monotono “Paste figgi”  ed una turba di ragazzi assordava col grido: “Birra e gazzeü!”.

Talora la voce dell’artista era coperta dal “paff” di una bottiglia di birra, il contenuto della quale andava a innaffiare i fiori del capellino di una signora nel palco sottostante. Allora erano grida, proteste, risate, imprecazioni..., una confusione generale, di cui v’era chi approfittava per stringere la mano o il braccio della vicina, la quale talora neppure opponeva resistenza...

Vi fu un tempo in cui le chiassate dell’“Apollo” trasmodarono così che la Direzione del teatro si vide costretta ad esporre in platea e nelle scale del loggione un cartello che proibiva severamente “di tenere il cappello in testa durante la rappresentazione, onde non impedire la vista ai posteriori (!)... e di offendere la decenza con clamori osceni”.

Ed ora, caro vecchio teatro di Borgo Lanaiuoli, ove si divertirono, ove risero, ove piansero i nostri nonni, anche per te l’ultima ora sta per suonare. La tua vita or brillante coi Sivori, coi Rossi, Monti e Salvini, ora lepida e giocosa cogli Stenterello e col Ferravilla, ora commovente e patetica coi Toselli e coi Gemelli sta per finire, nonostante che ad essa aggiungessero novello lustro e decoro i Merello e i Fagiani, rinnovandola moralmente e materialmente rendendola esteticamente bella ed ornata, e modernamente evoluta.

Anche per te, vecchio teatro, verrà il silenzio... verrà l’oblio... Domani il piccone demolitore ridurrà in macerie il tuo irrequieto loggione e quelle fitte e numerose cellette che ti davan l’aspetto di un alveare di api, e dalle quali, negli intermezzi, talora usciva il “paff” di una bottiglia di vino, l’acciottolio dei piatti ed il profumo d’arrosto che tanto impressionarono il grande Berlioz, nei vecchi teatri d’Italia.

Et nunc proficiscere [E ora va’, n.d.r.] ... povero nostro morituro. Addio, teatro dei cari ricordi e delle oneste nostalgie..., tu te ne vai, ma sappi che Genova tutta e la tua diletta Portoria specialmente, serberanno a lungo, del loro “Apollo”, lieta dolcissima ricordanza.

 

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CAMILLO SIVORI

(da una fotografia eseguita pochi giorni prima della morte) 

 

Figure e cose della vita genovese… d’una volta

 

Il Teatro delle “Vigne” e “ö Cincinina”

 

Articolo a firma E. L. D. pubblicato sul bollettino n° 1 – Gennaio 1933

 

 

La mala sorte toccata al “Falcone” – quella di dover chiudere i battenti per misure di pubblica incolumità – toccò pure al Teatro delle Vigne (il più antico di Genova) detto “delle marionette”, per quanto in illo tempore non vi agissero solo teste di legno, ma artisti in carne ed ossa. Trovavasi esso in un angusto vicolo, a fianco della Chiesa delle Vigne, chiamato tuttora dai vecchi genovesi: “o caruggio de marionette”.

Nel teatrino delle Vigne io feci le mie prime comparse e mossi i primi passi nell’arringo teatrale, come spettatore; e debbo confessare, ad onor del vero, che fra quelle teste di legno io mi trovavo bene (forse per la ragione del similia similibus) né mai mi vi addormentai – come qualche volta mi avvenne in altri teatri –; ma che per contro mi vi rifeci dei chili di buon sangue, e mi convinsi che talora le teste di legno ragionano meglio dei filosofi. Per cui al teatro delle Vigne sempre trovai diletto, nonostante qualche violento turacciolo di birra o di gazzosa ricevuto sul naso...

E il piccolo teatro io continuai a frequentare anche da giovinetto, poiché, ripeto, mi ci divertivo e perché là dentro io non mi trovavo fra spettatori gravi, impettiti ed austeri, ma in mezzo ad un pubblico minuscolo, allegro, chiassoso, che applaudiva, e fischiava ed urlava come dieci tempeste riunite, a seconda dei casi; un pubblico che rideva e si beava un mondo ai lazzi del simpatico Gerolamo... (der Magi d’ la Masca), le cui facezie avrebbero fatto passare l’ipocondria a un trappista.

Ai miei tempi vi operava taumaturgie e prodigi il mago Zane – successore al Ponti – il quale, autore ed attore, ricorreva alla storia, alla mitologia, al comico, al satirico, per divertire e sorprendere il suo pubblico fedele.

Non dimenticherò mai il ballo Crotocron. Quale successo! Una messa in scena da sbalordire... i scenari, il vestiario, il meccanismo, l’elasticità delle gambe delle ballerine... tutte cose che avevano del prodigioso... si trattava di burattini proprio di cartello... Non dico altro. Bisogna notare che al Teatro delle Vigne Tersicore ebbe sempre più fortuna di Euterpe; e papà Zane, che conosceva il gusto del suo pubblico, dopo il Crotocron eccolo a mettere in scena il ballo “L’Africana” e poi “Roberto il diavolo” e il “Diluvio universale”, ecc. Per cui le sue ballerine mai riposavano... erano proprio instancabili; ed il pubblico riconoscente, ne ricambiava il buon Zane, affollandogli il teatro, che era sempre pieno come una scatola di sardine di Nantes.

Molto prima delle marionette, attorno al 1750, nell’antico teatro delle Vigne si recitavano commedie e opere buffe, così che venne persino in fama di scollacciato, per modo da porgere ad un Magnifico, occasione del seguente monito al Senato:

“Da qualche tempo a questa parte gli Illustrissimi Inquisitori di Stato si sono molto rilasciati nell’osservare che nel teatro delle Vigne regni la decenza e la cristiana moderazione. Vi si permettono gesti, motti, atteggiamenti ed anche abbracciamenti (forse alludeva al loggione, in cui la semplice penombra poteva permettere qualche stretta di mano, di braccio o di che so io...) che non si permettono da Nazione civile e gentile”.

Il teatro delle Vigne comprendeva trentanove palchi, divisi in tre ordini oltre il loggione ed era proprietà dapprima della famiglia Durazzo ed in ultimo del Signor A. Romanengo.

E giacché siamo al mondo marionettistico prima di passare ad altri teatri più serii, vogliamo dire alcunché del noto, popolaresco, democraticissimo teatro delle marionette, del Cincinina.

Non v’ha a Genova chi – vissuto nei beati tempi dei lumi ad olio e delle candele – non ricordi con un senso di dolce nostalgia le solazzevoli tradizioni di quel teatro di marionette, mosse dalle mani destre, geniali (per quanto forse non sempre pulite) del Cincinina, il quale a tempo perso esercitava il commercio di legna e carbone. O Cincinina, fondatore e direttore del teatro omonimo di Vico Santi, fu il creatore della macchietta del “Barudda”, l’enfant gaté [bambino viziato, n.d.r.] del pubblico, costituito per la massima parte dalla monellaglia di Portoria, la quale interpretava, ne custodiva e ne tramandava le sempre nuove facezie. “Sire! il trono vacilla!” e Barudda: “Metteteci una stacchetta”. “Generale! quanti uomini avete?” – “Tre, o sire...” – “Ebbene fate circondare tutta la foresta”.

Quando a Barudda toccavano quelle solenni legnate sulla testa che suonavano come su una cassa di legno, applaudite freneticamente dal pubblico minuscolo, Barudda alzava gli occhi al cielo ed esclamava filosoficamente: “Sei tu dal ciel discesa?”... E siccome le bastonate a Barudda formavano la delizia della ragazzaglia del “Cincinina”, cosí questi le preannunciava sul cartello: “Tragedia tutta da ridere con relative bastonature a Barudda”.

Gl’intermezzi dello spettacolo servivano per lo smercio di frutta, fatto dallo stesso impresario. – “Cincinina, ’na palanca de meie”, era il grido che echeggiava sotto la nera volta del teatro. Fra la piccola monellaglia “Cincinina” sceglieva colui che avesse maggior ascendente sui riottosi e lo nominava “direttore di sala”, cui delegava la polizia d’essa, che era per lo più a base di scapaccioni.

E neppur mancavano di genialità le trovate del buon “Cincinina” per divertire il suo pubblico. Un giorno comparve sulla cantonata di Via Portoria un cartellone colla scritta a caratteri di scatola: “Barudda divorato dalle belve”... (scena dal vero) con sotto alcuni sgorbi raffiguranti due tigri che azzannavano il povero Barudda. La sera dello spettacolo il teatro rigurgitava; l’attesa era vivissima. Vedete mo’ che cosa aveva studiato l’ingegnoso “Cincinina”. Due macilenti soriani da lui chiusi in una gabbia e da alcuni giorni tenuti digiuni vennero al momento opportuno sguinzagliati contro il povero Barudda, cui in precedenza erano state avvolte, nascoste sotto la giacca, delle budella di pollo.

Figurarsi lo scempio che dell’infelice Barudda fecero gli affamati soriani e figurarsi il delirio del pubblico...; per poco “Cincinina” non fu portato in trionfo.

Le rappresentazioni al teatrino di Vico Santi fornirono allegro argomento a più di uno scrittore, e sommi artisti come Tomaso Salvini, ebbero vaghezza d’assistervi.

 

È nota la visita alle marionette fatta dal celebre Ernesto Rossi e rimase, direi, storica la frase con cui il “Cincinina” rifiutò cameratescamente il pagamento dell’entrata che era di 15 centesimi... “Fra noi artisti!...”

Il “Cincinina”, il nestore dei marionettisti genovesi (al secolo Luca Bigio), morì, credo, nel 1879, all’Ospedale di Pammatone nell’età di anni 78. In qualche giornale di Genova ricordo aver letto che egli era parente in linea collaterale del Balilla, l’eroe di Portoria, di cui conservava gelosamente il glorioso vessillo.

Ora le marionette sono scomparse da Genova, né più si vedon comprese fra i pubblici spettacoli, e buon per esse se trovarono ospitalità fra quelle domestiche pareti, ove ancor si giuoca a tombola ed ove ancor si trovano ammiratori di quelle care teste di legno, fra cui ha l’onore di annoverarsi il sottoscritto.

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Figure e cose della vita genovese… d’una volta

 

Il Teatro “Alfieri”

 

Articolo a firma E. L. D. pubblicato sul bollettino n° 11 Novembre 1932

 

Chi, dopo percorse l’angusta, movimentata via Giulia e la strada della Consolazione, lasciati a destra gli ombreggiati giuochi da bocce della B... (il nome è bene non arrivi alla penna) e le fortificazioni delle “fronti basse” che facean capo alla Camera mortuaria, giunto a Porta Pila, affacciato si fosse alla vasta spianata del Bisagno “ö Prou”, avrebbe scorto alla sua sinistra su di un lieve rialto, un badiale informe baraccone, cui facean ala catapecchie da ferravecchi e banchi per la vendita di frutta e dolciumi, confezionati questi sotto gli occhi cupidi di uno sciame di ragazzi... Quell’informe baraccone era il teatro Alfieri... Un teatro che, nonostante la sua dimessa apparenza, accolse le migliori Compagnie drammatiche del suo tempo quali, la Nazionale, la Marini, la Bellotti-Bon, la Diligenti, la Emanuel... e poi Maggi, Novelli, ecc...

 

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GENOVA – Porta Pila

 

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GENOVA – La spianata del Bisagno con le vecchie mura (le Fronti Basse).

Nel punto segnato con una crocetta si vede l’antico Politeama Alfieri.

 

Morta asfissiata e sepolta sotto un cumulo di case l’arena Galeazzo Alessi in Carignano, il suo proprietario ed impresario, l’instancabile Daniele Chiarella, pensò subito a rimpiazzarla... e costrusse il Politeama Alfieri. A giudicarlo dall’esterno, nessuno avrebbe potuto immaginare la magnifica sala decorata, con artistiche pitture del Novaro “ö professö Förçinn-a”, del Pietra “ö sciö Pria”, e di altri valenti maestri del pennello; nonché le loggie, le gradinate, i palchi di proscenio e le poltrone rivestite di ricco velluto che ne adornavano l’interno.

L’Alfieri fu inaugurato il 4 giugno del 1876 dalla Compagnia di Carlo Lollio, che andò in scena con “La Morte Civile” del Giacometti. E quello fu splendido battesimo pel nascente teatro, poiché esso mai più vide una piena così strabocchevole e spaventosa. Seguirono invero, venuta la stagione delle pioggie e del freddo, giorni meno prosperi per il teatro “extra moenia”, per il “diviso dal mondo ultimo Alfieri”, come lo chiamava il nostro Sichel, l’allora primo brillante della Compagnia Lollio. Ma l’insonne Chiarella, che non conosceva indugi e sospensioni, eccolo a chiamare all’Alfieri il suo amico Bartoletti, il proto – romanesco – lottatore, e dopo di esso Compagnie acrobatiche, equestri, di quadri plastici, ecc. E in un momento in cui il teatro parea sonnecchiasse (e sì fu nel Carnevale e nei primi giorni di quaresima del 1877) ecco il Chiarella introdurvi i balli popolari, i quali vi fecero furore.

Per cui, sulla profumata capigliatura delle nostre belle donne, la polvere di riso andò a confondersi colle sacre ceneri quaresimali; dimentiche le care donnine del: “memento mulier quia pulvis es...”.

Ma vennero i giorni dello splendore e l’Arte, la vera Arte, tornò a rifulgere nel cielo dell’Alfieri” sulle scene del quale non tardarono ad avvicendarsi, come dianzi dicemmo, le nostre primarie Compagnie drammatiche.

Per cui, nella primavera del 1878, Genova vi salutò la Compagnia Nazionale colla Glech, la Falconi, il Reinach, Leygheb, Bracci, ecc., la quale vi iniziò un corso di recite colla Commedia satirica “I mattoidi”, nei personaggi della quale erano tratteggiate persone in vista, vere e viventi, quali: il Lombroso, il professor Sbarbaro, D’Annunzio, la Serao, Scarfoglio, ecc.

Dei “mattoidi” ricordo un brano di dialogo fra una letterata e un professore:

La letterata – ...Non so se io debba fare un romanzo, una tragedia, o un poema...

Il professore – Fate... un figliuolo.

E sulle scene dell’Alfieri Genova salutò pure la piccola Gemma Cuniberti in “Goldoni bambino”. Chi non vide quell’amabile artista in miniatura recitare “L’hanno tutte, mamma, il suo babbo?”, commedia scritta per essa, da Leopoldo Marengo, non vide prodigio. La piccola Cuniberti facea ridere e piangere... ammaliava. Fu credo, dopo quella recita, che la Ristori le mandò il suo ritratto con la dedica: “Alla mia piccola emula”. Quale più ambito elogio?

A dire il vero, quando non si trattava di serate veramente importanti, l’Alfieri difettava un po’ di luce; del che se ne movevano frequenti lagnanze al Chiarella anche per mezzo dei giornali. Ma egli si stringeva nelle spalle e si limitava a rispondere: “N’han de m... pe-à testa!” per cui le lampade, in parte spente, continuavano a mettere in luce l’ostinatezza e la... parsimonia del sig. Chiarella. Che un freddurista avrebbe chiamato invece “Scurella”.

E poiché ci avvenne di nominare più sopra il prof. Novaro, diremo altresì come egli, oltreché artista colto e geniale, un uomo solazzevole e, per le sue facezie ricercatissimo. Di queste, una me ne ricorre alla mente, la quale con l’apertura dell’Alfieri, avendo pur qualche relazione, vo’ permettermi qui riferire.

Avealo il Chiarella, incaricato di pingere il sipario del nuovo teatro di cui era imminente l’apertura. Il commessogli lavoro, il nostro professore eseguì puntualmente e lodevolmente. Ma fatalità volle che il tempo si mettesse all’umido, cosicché la tela, distesa quanto era, larga sulle sedie della platea, non accennava ad asciugare così prontamente come avrebbe dovuto, nonostante i sacrati del burbero Chiarella, il quale aveva già fuori i manifesti della prima rappresentazione.

Sbuffante, imprecante, il Chiarella, misurava a passi concitati la sala, gettando a quando a quando occhiaie torve sull’umidiccia tela, e non si ristava dal rivolgere inchieste su inchieste al pittore, nella cui multiforme, ingegnosa accortezza avea fede inconcussa: “Ma che no ghe segge proprio ninte ne-a chimica, ne-e risorse da scienza pe fà sciugâ quest’amazzoû d’ûn scipaio?... Sciâ ghe pense un pô professû... Voscià che scia sa tante cose! ... Per cui il prof. Novaro, non sapendo più come liberarsi dalle insistenze del furibondo Daniele e volendo con un motto di spirito, – che egli avea pronto e sagace, – farlo avveduto dell’inutilità loro, gli rispose: “Sentì, cao Ciarella, mi no saviaê proprio cume fâ, ma pe’ cuntentave ne veûggio provâ ancon unn-a...”. E il Chiarella, che come s’è detto avea fede viva in lui, aprì tanto d’occhi e si mise in ascolto. “O sêì cose fasso, mando un pò a ciamm-à maê moggê... a me sciuga tanto e... tavernelle a mi che chissà che a no riesce a sciugà anche o scipaio...”.

Non v’ha a Genova chi, avendo qualche annetto sul groppone, del prof. Novaro, oltre all’arguzia talora un po’ libera, non ricordi anche la figura da asceta, da romita direi, da vegetariano, quale per vero egli non era, come il nomignolo “sciö Forçinn-a” lo dice. A me par vederlo ancora: alto, magro, coll’inappuntabile – (diceva l’arguto prof. Bensa, perché privo... di bottoni) – nero soprabito, su cui, da chi ben l’avesse osservato, si sarebbe potuto discernere il menù dell’ultimo pranzo...; con la rada barba dal pizzo caprino, coi lunghi capelli spioventi sulle spalle e che già mostravano una tal quale volubilità di colore, e collo stereotipato, sardonico sorriso sulle labbra... Mi par di vederlo...

Ma, sul prof. Novaro, gli è tempo di chiudere la parentesi e ritornare all’Alfieri, che lasciammo mentre vi entrava Novelli, l’amico di Chiarella, di cui è noto il dono fatto all’amico suo di una palazzina sui Camaldoli, l’acropoli di Genova. Solitava dire il Chiarella: quando il mio teatro si ammala e quando è sopraffatto da marasmo, sapete cosa faccio, io chiamo il medico... e sapete chi è?... Ermete Novelli”. Che medico per i teatri... Andate un po’ a sentir Novelli in: “Le distrazioni del sig. Antenore”... sentitelo nel “Mondo della Noia” – suo cavallo di battaglia... Ma è già, quanti ne ha lui cavalli di battaglia!... Andatelo a sentire nel “Cardinal Lambertini”... e poi me ne direte qualcosa.

Ma anche per l’Alfieri venne la morte... venne l’oblio. Finì, come “Ilio combusta”... finì tra le fiamme... Il vecchio Alfieri, cui all’ultima ora il pubblico suo prediletto aveva un po’ voltate le spalle, sdegnoso, salì il rogo e di lui più non restò che un cumulo di cenere... Era di legno e si sarà, seccato... di star senza far niente.

 

 

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