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CARA VECCHIA GENOVA

 

Cara vecchia Genova

 

Articolo pubblicato sul bollettino n° 12 – dicembre 1931

 

 

Plaudiamo all’amico e compagno cav. Emanuele Pissimbono per la magnifica decorazione data recentemente al suo negozio di via Luccoli, all’angolo di vico Sottile. Il cav. Pissimbono, seguendo l’esempio di alcuni altri benemeriti cittadini, di cui abbiamo avuto occasione in passato di far cenno, ha rimosso tutto l’intonaco che copriva la pietra medioevale e ha ridato alle storiche mure il loro primitivo splendore, rimettendo in luce l’artistico capitello tra le due vetrine, e conferendo al negozio lo splendido aspetto che oggi forma l’ammirazione di tutti quanti hanno occasione di transitare giornalmente lungo la «via delle signore».

Se il cav. Pissimbono invece di seguire l’impulso del suo temperamento artistico si fosse attenuto a quelle soprastrutture di vetrine esterne ingombranti ed antiestetiche avrebbe speso una cifra non inferiore, forse maggiore di quella impiegata per l’attuale sistemazione, senza ottenere il duplice scopo conseguito: di richiamare maggiormente sulla sua bottega l’attenzione del pubblico e di avere realizzato una veramente bella ricostruzione artistica.

Noi auguriamo che i proprietari e i titolari di negozi siti nella vecchia Genova si ispirino, per le eventuali riparazioni ai loro immobili, a questi concetti che sono nello stesso tempo utilitari e squisitamente estetici; e ricordiamo come già anni addietro la «Compagna» abbia in questo senso espresso ripetutamente il suo voto. Plaudiamo pure al Municipio che, per mezzo dell’Ufficio d’Arte tanto si presta per facilitare questa opera che tende a rimettere in luce le bellezze di Genova medioevale.

 

 

LO STESSO NEGOZIO OGGI

  

 

Un curioso centenario stradale

Via Luccoli nella vita ele

gante genovese

 

Articolo a firma Riccardo Castelli, pubblicato sul bollettino n° 12 – dicembre 1932

 

Martin Piaggio, il poeta nostro, il verseggiatore originale e civile che Amedeo Pescio non esitò a definire nel suo genere certamente unico, se potesse oggi rivivere nelle spoglie del suo Signor Regina, vorrebbe forse modificare il severo giudizio espresso nella “Revista da çittaê” per l’anno 1832.

Il primo Lunario del Signor Regina apparve nel 1815 e la pubblicazione continuò ininterrotta fino al 1843, anno in cui, ai 22 di aprile, Martin Piaggio cessava di vivere fra il compianto dell’universale.

Nella prefazione per la quinta edizione (anno 1914) delle poesie del Piaggio, l’indimenticabile L. A. Cervetto, parlando appunto del “Lunajo do Sciô Reginn‑a”, scrive: I principali avvenimenti cittadini erano dal Piaggio descritti maravigliosamente. Egli ricordava tutti i fatti più salienti avvenuti durante l’annata. Interessantissima era tra l’altro la “Rivista Cittadina”, nella quale il Piaggio, con quel senso del bello che lo aveva conquiso fin dalla sua giovinezza, parlava dei lavori edilizi che si andavano compiendo, né tralasciava opportune critiche e saggi avvertimenti, intesi tutti a creare nuove migliorie alla città sua, benessere alla popolazione.

La “Rivista Cittadina” era compilata a guisa di dialogo ed i personaggi erano O Sciô Reginn-a e Cattainetta, una briosa popolana, rivenditrice di aranci e di nocciuole.

Ed eccoci così al centenario di quella Revista, in cui il Poeta, dopo avere premesso che:

 

A l’é’ còsa incontrastabile,

Evidente, caea, palpabile

Che da un lustro a questa parte

Zena a l’é vegnùa ciù bèlla,

E a no pà mancô ciù quella,

 

fa esplicita riserva per quanto si riferisce al nuovo adattamento di via Luccoli e scrive:

 

Là da Luccoi, a dì a veitaê,

Stava mégio còmme gh’ea;

G’han tappòu d’ûnn-a manea

Che se resta soffochaê;

Quaexi, quaexi, Comâ càa,

Stava mégio un pò de scàa

Ciù che quello scòrsajeu

Faêto a moddo tòrtajeu...

 

Ebbene, no; quello scòrsajeu, o rampa finale, che chiude, in certo qual modo, la visuale e, voltando a destra, sale a via Carlo Felice e piazza Fontane Marose, è stato appunto, se non andiamo errati, la ragion prima della trasformazione di via Luccoli, da strada di passaggio e di collegamento, ad una arteria pulsante di vita, ad un ritrovo di bellezza, ad una magnifica esposizione d’arte, di eleganza, di opulenza, fra i ricordi dei palazzi medioevali e lo splendore dei ricchi negozi di mode, brillanti di luci, di ori, di specchi.

Negozi – diciamo – dove i pizzi e i ricami, miracolo vago dell’aspo e dell’ago, occhieggiano i morbidi velluti; dove si direbbe che il suggestivo fruscio della seta si confonda colla voluttuosa carezza della pelliccia; dove il candore delle finissime tele di Pissimbono sembra richiamare il tepore delle ben tessute lane di Isolabella; dove i soffici tappeti di Cabib sembrano invitare gli arcuati piedini delle belle signore genovesi; dove le assortite stoffe di Odone sembrano contendere a Iride, figlia di Taumante, i raggianti colori!

Via Luccoli nulla ha da invidiare alle maggiori strade della Superba, mentre anzi il suo corso quasi angusto, non turbato da veicoli (o portantina di madonna Lilla!) agevola gli incontri e lo scambio dei saluti e dei dolci sorrisi; permette ai passanti anche le brevi soste davanti alle ben ordinate e attraenti vetrine, e consente un raccoglimento quasi famigliare e, nello stesso tempo, distinto, che conferisce a via Luccoli una sua particolare caratteristica che altre strade più larghe, più moderne, più monumentali, non hanno, e la rende, in certi pomeriggi, così affollata, che due correnti si formano in senso opposto, come in Roma nell’anno del Giubileo, di cui parla l’Alighieri;

 

Che dall’un lato tutti hanno la fronte

Verso il Castello e vanno a Santo Pietro,

Dall’altra sponda vanno verso il monte!

 

Del resto, non è neppure novità che:

 

Zena é çittaê pinn-a

De gente e de ogni ben fornìa;

 

se l’anonimo poeta del 1300 – o giù di lì – ce la descrive:

 

tutta pinn-a da cò a pe’

de paraxi e casamenti.

 

E notiamo ancora come i genovesi, fino da allora, tenessero ad avere ben forniti ed ordinati i negozi. Ecco infatti l’anonimo poeta sovra citato, che esclama:

 

E como per le contraê

sun le buteghe ordenaê!

che queli chi sun dun arte

stan quaxi insemme da tutte parte.

De queste mercantie fìnne

le buteghe ne stan pinne.

 

Non v’ha dubbio che via Luccoli conserva molto della sua antica fisionomia, pure nel nuovo fastoso aspetto moderno; ma ciò non deve stupire, perché (diremo con Steva De Franchi):

 

In Zena ancon se batte

Dro maeximo metallo e forsi megio,

Senza invidiâ ro tempo andaeto e vegio.

 

E invero se vi è a Genova una strada aristocratica e di commercio nello stesso tempo, essa è precisamente via Luccoli, dove l’arte antica va unita alla signorilità moderna, dove il traffico apparisce – ed è realmente – più intenso che altrove, dove si ammirano i più vecchi, i più rinomati, i più suntuosi e pur invitanti negozi. Basterà citarne qualcuno, fra i migliori, per averne la indiscutibile prova.

Ed ecco infatti Pissimbono, che gli eleganti ricordano fino dal 1898, allogato ora entro le spaziose logge di un palazzo del secolo XV, da lui restaurato; ecco Cabib, il quale, con sobria e distinta modernità, trasformò il suo esercizio che risale al 1893; ecco Odone che, pregiato fino dal 1875, non teme confronti, né in Genova, né fuori, per grandiosità e arredamento; ecco Isolabella, la ditta che vide gli albori del 1800, che domina in piazza Luccoli con le sue ampie e luminose vetrine...; tutti oggetto di ammirazione da parte della cittadinanza e meta preferita delle nobili dame e delle avvedute massaie che, da buone genovesi, amano spendere bene i loro danari.

Si respira in via Luccoli come un’aria di composta signorilità che torna gradita a tutti. Vi è qualche cosa che attrae, qualche cosa che invita a passarvi anche più volte al giorno, lasciando fuori, sia pure per poco, i rumori assordanti delle altre vie, i pericoli, il chiasso, la confusione.

Ond’è che, ben a ragione, Enrico Meraldi, in un grazioso sonetto comparso in questa Rivista nel fascicolo del luglio 1929, scrive di via Luccoli:

 

“O salotto de Zena” l’han ciammà

e-a no poéiva ése megiô definìa,

che de belle scignòe tanto gremìa

a l’é in sciò tardi da no poéi passà...

 

Unn’äia de salotto se respía:

– Bella questa! – E quest’atra! – E no se sâ

se ciù bella a l’è a figgia o a l’è a mammâ.

E se vedde, e se pensa, e se sospía.

 

Son chì tûtte e ciù belle da çittae,

Son tûtte insemme chì, comme in te ûn masso,

tûtto rêuze e gardenie profûmae.

 

E ti co-i êuggi ti te gödi a scena:

e mëgio ancon che no da-o Castellasso

ti veddi chì comme a l’è bella Zena.

 

Per altro la via Luccoli di cento anni fa era ben diversa dalla attuale. Essa, prima che fosse aperta la via Carlo Felice, ossia circa fino al 1825, proseguiva verso l’alto e faceva una cosa coll’attuale salita di Santa Caterina, ma prima ancora, nell’età di mezzo, come ricorda Amedeo Pescio, piuttosto che una strada era un sentiero in mezzo ad alberi. E invero, come ripetono tutte le Guide, via Luccoli fu così denominata a ricordare il lucus o luculus, antico bosco sacro che saliva fino all’altura dove sorge la Chiesa dei Cappuccini ed era attraversato dal rivo (riâ) che raccogliendo le acque del fossato di Bachernia, per Soziglia e l’attuale via Orefici, metteva foce in mare, donde il cosidetto Ponte Reale.

Di secolo in secolo lungo il corso del riâ, trasformato in condotto e coperto, sorsero costruzioni diverse e, in progresso di tempo, case e palazzi, per opera specialmente della famiglia Spinola, un ramo della quale fu detto appunto di Luccoli, in opposizione all’altro ramo detto di San Luca.

E qui giova ricordare, fra le costruzioni notevoli di via Luccoli, il palazzo Franzoni all’imbocco della strada, il palazzo Raggio e quello olim Serra, oltre il caseggiato ove si apre il negozio, già accennato, del cav. Pissimbono, e che fu già sede di uffici doganali. È una magnifica costruzione del 1400, restituita in gran parte all’antico splendore.

E qui poniamo fine a questa palinodia che, iniziata, per un curioso rilievo, minaccia di andare – come suol dirsi – fuori del seminato; ma ormai sono piene le carte ordite per questo articolo, cosicché lo fren dell’arte... e dello spazio – per fortuna dei lettori – non ci lascia ire oltre.

 

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Genova in pillole

 

Articolo a firma Marbet, pubblicato sul bollettino n° 7 – luglio 1930

 

 

(foto da Pinterest, n.d.r.)

 

Campanile della chiesetta di Boccadasse: edizione tascabile della Lanterna.

 

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Da quando venne allargata la piazza di S. Lorenzo e fatto il porticato dell’ex palazzo della Banca d’Italia, Vico del Filo ha perso il... filo. S’è ingarbugliato. La vetusta cattedrale, che prima se lo vedeva sfrecciare diritto proprio davanti al portale maggiore, ormai stenta non poco a ritrovarlo.

 

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S. Pietro in Banchi: minuscolo tempio cinto, alla base, da una fascia sonora di bars, di “scagni”, di sale dattilografiche, di fondaci operosi: la fede che sovrasta gli affari.

 

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Luccoli. Si dice che la via tragga il nome da lucus, bosco. Infatti anticamente, il luogo era tutto coperto di alberi, dal mare fino all’attuale piazza dei Cappuccini. Ora, di quella distesa selvosa non è rimasto che il cinguettìo, alimentato dalle belle signore, assidue del “salotto”.

 

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Quando la Borsa è in agitazione il gran ventre rossastro del palazzo omonimo sembra risonare di remoti borborigmi.

 

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Il Castello Mackenzie? Una specie di Palazzo Vecchio ricopiato in bella calligrafia inglese.

 

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Dei molti alberi che, secondo il Donaver, coprivano l’antico Campetto, uno solo era riuscito a salvarsi arrampicandosi sopra il portale dell’ex Palazzo Imperiale e mettendovi salde radici. Ma l’inverno del 1929 l’ha definitivamente ucciso.

 

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Vico Casana: aorta del cuore di Genova.

 

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Da Cassini, a De Ferrari, i bottoni si vendono: sul largo marciapiedi antistante, bottoni si attaccano.

 

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L’attuale via S. Giuseppe era chiamata, un tempo, “crosa del diavolo” o “dell’inferno” perché abituale luogo di convegno di congiurati e malandrini. Ora, per contro, con tutti i suoi spacci di ravioli fatti a macchina, è diventata il “paradiso” dei ghiottoni.

 

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La “metropolitana”. E chi se ne ricorda più? Gli unici che ne stanno ancora studiando i piani, con frequenti applicazioni positive, sono i benemeriti “cavalieri delle fogne”. Tale un non lontano giudizio espresso in Corte da Silvio Pellegrini [avvocato penalista, n.d.r.].

 

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L’architettura “bubbonica” di taluni palazzi di via XX Settembre fu, invece, scoperta da Pellegrini padre [Antonio Pellegrini, deputato, n.d.r.].

 

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Campanile di S. Giacomo di Carignano: enorme siringa da iniezioni ipodermiche, il cui ago punge, talvolta, l’anca argentea d’una nuvola di passaggio.

 

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Quel sontuoso “Columbia” che ha sloggiato dall’Acquaverde l’antica Villa Farraggiana, così cara nella levigata semplicità de’ suoi marmi autentici, non s’è ancora affiatato col sottostante, rugoso, aggrondato S. Giovanni di Prè. Si sa: i vecchi son sempre un po’ diffidenti verso i nuovi venuti...

 

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Perché la “Madonnetta”, lassù verso il Righi, volge il tondeggiante dorso dell’abside anziché la facciata luminosa all’arco panoramico di Genova? E’ un atto d’umiltà o di superbia?

 

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Marassi “prigione rossa” un po’ meno romantica di quella di Dickens a S. Nazzaro [Villa Bagnarello, n.d.r.].

 

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Santa Zita è scomparsa sotto la propria cupola. Cameriere, cuoche, balie, ancelle in genere della Superba, liberate la vostra protettrice dal coperchio che l’imprigiona!

 

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Al Portello la popolazione ecclesiastica cresce a vista d’occhio. Siamo già a due Preti [quando piazza Portello, con tale toponimo, non esisteva ancora, il negozio era in via Caffaro, n.d.r.].

 

 

(foto ©Archivio storico Preti 1851 s.r.l.)

 

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Dei tre bronzei cavalli di Genova quello di Garibaldi esprime la mansuetudine, quello di Vittorio Emanuele l’orgoglio, quello del General Belgrano l’impulsività

 

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Con tanta lotta contro i costumi troppo succinti anche il povero Bisagno hanno dovuto coprirlo.

 

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Cara chiesina di S. Barnaba, lassù sul brullo Peraldo! Ecco: fra le tue mura candide e disadorne, immerso nel tuo inviolato silenzio, anche il più indurito dei miscredenti sente, per un attimo, la presenza di Dio.

 

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