NOTA! Questo sito utilizza i cookie e tecnologie simili.

Se non si modificano le impostazioni del browser, l'utente accetta.

Approvo
image1 image2 image3 image3

A COMPAGNA: IMPRESSIONI FORESTALI LIGURI

 

Impressioni forestali

 

liguri

 

Articolo a firma A. Merendi, pubblicato sul bollettino n° 4 – luglio 1928

 

image002.jpg

 

VEDUTA PANORAMICA DELL’ALTO BACINO DEL TORRENTE NEGRONE (Genova)

IN CORSO DI SISTEMAZIONE

 

Ogni qual volta mi è accaduto di percorrere il meraviglioso arco ligure lungo la suggestiva linea rivierasca o di addentrarmi nelle strette ed impervie vallate dell’entroterra, il mio spirito è stato sempre profondamente colpito, non solo dalla incomparabile vaghezza del paesaggio, ma anche dalla estrema varietà e ricchezza della flora. Questo particolare sfugge, forse, alla numerosa e sempre rinnovantesi schiera dei turisti che usano concedere al glauco mare tirrenico od all’azzurro cielo, lunghe e riposanti ore di estatica contemplazione, ma non certo a chi ha da lungo tempo l’occhio abituato allo studio ed alla indagine delle più salienti manifestazioni della natura.

Favorita da un clima mite ed umido, che ha davvero il sorriso dei tropici, la costa ligure consente a quasi tutti gli elementi della flora terrestre di trovare nei propri recessi le più favorevoli condizioni di vita e di sviluppo. Vegetano perciò in questo ambiente le specie arboree ed erbacee più disparate, quali le araucarie, le muse [genere di piante che comprende il banano, n.d.r.], le acacie australiane ed africane, le palme, gli eucalipti, le magnolie, gli agrumi, gli olivi, i garofani, le rose e mille altre piante indigene ed esotiche. Ma quello che forma oggetto di maggior interesse per chi si addentra negli studi di geografia botanica e di ecologia, è il modo con cui le zone climatiche si intrecciano e si capovolgono, per cui viene dato di osservare il faggio alla stessa quota del leccio, quando pure non avvenga che il primo si trovi più in basso del secondo. E non trattasi di casi sporadici, i quali potrebbero facilmente spiegarsi con la esistenza di piccole oasi aventi un clima diverso da quello della regione in cui si trovano per effetto di speciali condizioni di giacitura, esposizione ecc., ma di casi frequenti e numerosi. Essi com’è noto, sono dovuti all’influenza del fattore umidità.

Un’altra particolarità della Liguria sta in questo: che tutte le zone climatiche forestali esistenti in Italia, si succedono e s’inseguono nel breve tratto di poche diecine di chilometri. Il che si spiega con le caratteristiche orografiche della regione, caratteristiche pressoché uniche in Italia in quanto danno luogo a dislivelli altimetrici fortissimi in breve spazio.

 

* * *

 

È noto che la regione ligure ha una superficie di Ha. 543.342 e che circa il 40 per cento di questo territorio è boschivo. Essa è, in senso relativo, la regione più boscosa d’Italia. Questo fatto potrebbe a tutta prima, far pensare che la Liguria dovesse avere una popolazione poco densa, come solitamente avviene pei terreni montani; mentre la popolazione ligure è, nella media, densissima. Infatti essa raggiunge i 246 abitanti per chilometro quadrato. È questa una densità demografica che non è superata da alcun’altra regione. Delle quattro provincie componenti la Liguria, il primato è tenuto da Genova con una densità di 436 abitanti per chilometro quadrato; seguono, a distanza progressivamente maggiore, Spezia, Savona, Imperia. Ma questa apparente eccezione alla regola generale sopra accennata, si spiega col fatto che la gente ligure e quasi tutta concentrata lungo il bordo litoraneo, intenta ai grandi traffici marini, alle opere feconde dei suoi poderosi cantieri ed alle meravigliose colture floreali della riviera di ponente. Il monte invece, sede di una economia agraria e forestale ancora molto arretrata, e perciò incapace di competere, per quanto riguarda le possibilità di guadagno, con la zona portuale ed i centri industriali, è andato progressivamente spopolandosi.

Il deflusso verso la costa perdura tuttora, né è lecito prevedere quando sarà possibile arrestarlo. Quali siano le ripercussioni di questo esodo è facile immaginare: campi abbandonati, oliveti sradicati o ridotti a boschi d’alto fusto, zone pascolative trasformate in cespuglieti, fustaie di castagno da frutto inselvatichite e foreste lasciate alla mercé delle forze, non sempre ai nostri fini intelligenti, della natura. Se, adunque il naturalista ha modo di compiacersi delle gradevoli sensazioni che il suo occhio riceve, non altrettanto può fare “l’homo oeconomicus” cui preme che la terra non isterilisca e non rimanga inoperosa. La genesi di un tale abbandono è intuitiva, traendo essa origine dalla attrezzatura economica della regione, ma questo, forse, non è sufficiente per giustificare uno stato di cose che potrebbe avere le più gravi conseguenze. Ritornare alla terra anche per una regione che trae dai mari immensi ogni sua ricchezza, un atto di previdenza e di saggezza.

E questo sarà fatto.

 

* * *

 

La ricchezza silvana della Liguria è data essenzialmente dagli alti fusti di pino marittimo, dai castagneti e dai cedui misti di quercia, nocciolo, castagno, carpino, citiso, ontano ecc. Meno estesi appaiono ì cedui di tipo prettamente mediterraneo a base di leccio, di albatro e scopa, i cedui castanili, le faggete d’alto fusto, i cedui di faggio, i boschi di pino silvestre e i lariceti.

I pascoli montani alpini hanno larga diffusione nella provincia di Imperia dove raggiungono una estensione di oltre 20.000 ettari. Relativamente modeste sono invece le zone pascolive nel rimanente territorio, essenzialmente a cagione della minore elevatezza della catena montuosa declinante sensibilmente dall’attacco con l’arco alpino fino al Monte Penna. Qui però risale bruscamente per aver modo di raggiungere e saldarsi al giogo appenninico.

 

image003.jpg

 

ROSSIGLIONE – LOCALITÀ GIAZZE RARAMENTE CESPUGLIATA, 

IN CORSO DI RIMBOSCHIMENTO CON SEMINA DI PINO MARITTIMO (1922-1923)

 

Il pino marittimo riveste quasi ininterrottamente la fascia montuosa ligure fino ad un’altezza di 600-700 metri. Le maggiori altitudini le raggiunge dove ancora manifesta è l’azione del vento marino e nelle esposizioni a solatìo. Si abbassa invece in modo sensibile dove il clima si avvicina al tipo continentale e di questo assume i caratteri peculiari.

Non è fuori di luogo affermare che, se gran parte della Liguria è ancora più o meno boscata, il merito principale deve essere attribuito al meraviglioso pino selvatico il quale ha saputo superare le critiche situazioni determinate dagli intensissimi tagli del tempo di guerra. Infatti, malgrado che le utilizzazioni di quel periodo siano state condotte – salvo qualche eccezione – con scarso e molto discutibile criterio tecnico e colturale (gran parte delle pinete non erano e non sono tuttora soggette a vincolo forestale, ragione per cui il loro taglio non poteva essere sottoposto ad alcuna restrizione legislativa), il pino è riuscito a mantenere saldo il possesso del terreno, in virtù di una facilità di rinnovazione naturale che ha davvero del meraviglioso. È avvenuto così che, anche dove furono attuati estesissimi tagli a raso senza rilascio alcuno di riserve, la pineta è risorta essendo stato sufficiente ad assicurare la rinnovazione del bosco il poco seme contenuto negli strobili delle piante che furono abbattute. E si badi che i tagli caddero anche su boschi molto giovani.

Il merito grandissimo di avere data larga diffusione al pino marittimo in Liguria spetta ai vecchi tecnici dell’amministrazione forestale e al Consorzio rimboschimenti della provincia di Genova.

In un quarantennio questo benemerito Ente riuscì a rimboschire oltre ottomila ettari di zone nude collinari di proprietà Comunale, ed ancor oggi si resta davvero ammirati dalla bellezza delle pinete selvatiche di molti Comuni rivieraschi, fra le quali meritano speciale menzione quelle di Framura e Bonassola, affacciantisi sul mare in uno dei punti più deliziosi della Riviera.

Scartata l’utilizzazione della resina per ragioni forse non ben ponderate, le pinete vengono oggi coltivate ed utilizzate con l’unico criterio della produzione di assortimenti legnosi di non grande valore unitario ma di largo consumo locale, quali i puntoni per gallerie, per armature esterne, le palafitte, i tronchi da sega per produrre tavolame da imballaggio. 

Il turno adottato supera raramente i 40 anni. A questa età la pianta accusa già evidenti segni della vecchiaia, per cui meglio è utilizzarla. Il sistema di utilizzazione migliore è quello del taglio a raso con 40-50 riserve le quali, per solito, vengono abbattute all’epoca dei primi sfollamenti. Lasciare in piedi un numero di piante maggiore non sarebbe né utile né necessario, mentre si avrebbe invece lo svantaggio di aduggiare troppo il novellame. Ho notato che dove il terreno è più sterile e roccioso, il pino si rinnova assai meglio che non nelle zone fertili. Ciò è dovuto al fatto che quivi, dopo il taglio, sorge e si sviluppa una vegetazione erbacea ed arbustiva di grandissimo rigoglio, la quale impedisce sovente al seme di germinare ed alle pianticelle di affermarsi. 

 

* * *

 

Ma, più che le pinete selvatiche, hanno importanza in Liguria i castagneti da frutto il cui miglioramento produttivo rappresenta, forse, il maggiore problema forestale della regione. La superficie occupata da questo tipo di bosco è, secondo dati del catasto agrario, di Ha. 90.840 – così ripartiti: Genova Ha. 42.199, Savona Ha. 18.132, Spezia Ha. 16.827, Imperia Ha. 13.682. Non è nota la produzione annua media per ettaro del frutto, ma se le indagini da me compiute sono esatte, essa non dovrebbe scostarsi di molto dalla media nazionale che è appena di 10 quintali. È sufficiente questo dato per indicare le attuali condizioni dei castagneti liguri.

 

image004.jpg

 

STRADA DEL PASSO DEL BOCCO COLLE ZONE LATERALI DA RIMBOSCHIRSI

 

Io, che conosco la selvicoltura ligure da poco tempo soltanto, ed avevo l’occhio abituato alle magnifiche selve della Toscana, sono rimasto molto colpito dall’estremo grado di densità dei castagneti, e mi sono subito domandato la ragione di questo fatto. Confesso di non essere ancora riuscito la trovarla – o per lo meno – di non aver ancora ben compreso il perché di un sistema che – ad un esame anche non approfondito – sembrerebbe non potesse reggere ad una severa critica. Se in qualche plaga si notano densità di circa 200-300 piante per ettaro (parlo naturalmente di boschi maturi) assai più frequente è il caso di alti fusti con un grado di foltezza anche cinque volte superiore. Non quindi castagni dotati di ampia chioma e forniti di un robusto tronco ben ramificato, ma esemplari con poca fronda e fusti esili spesso contorti. A tutta prima può sembrare di essere di fronte a boschi coltivati in modo da assicurare, più che la produzione del frutto, quella del legno, ma allora – a mio modo di vedere – altri criteri tecnici dovrebbero essere di guida al proprietario. Si afferma che la natura eminentemente rocciosa del suolo ligure non consente ai castagni di raggiungere grandi dimensioni. Può darsi che ciò sia in parte vero, ma è innegabile che l’adozione di sistemi colturali più progrediti permetterebbe di trarre dai castagneti liguri redditi assai più elevati.

 

image005.jpg

 

TIGLIETO – LOCALITÀ ROCCA SCAIONE RIMBOSCHITA CON SEMINA DI PINO MARITTIMO

NEL 1903 – ANNI 20

 

In questi ultimi anni un fatto nuovo è venuto a turbare profondamente il secolare ritmo utilizzato dei castagneti da frutto della regione. Alludo all’industria degli estratti tannini, la quale ha in Liguria circa dieci fabbriche che consumano annualmente oltre un milione e duecentomila quintali di legname di castagno. Mentre, prima dell’avvento di questa nuova forma di attività industriale italiana, le selve liguri venivano sottoposte a tagli molto parchi, dettati esclusivamente dal bisogno di legname per gli usi domestici ed agricoli, oggi le utilizzazioni hanno assunto l’aspetto vero e proprio di tagli a raso con rilascio di poche riserve, purtroppo non sempre scelte fra i migliori esemplari esistenti sulla superficie percorsa dal taglio. Ne è derivato che vaste plaghe un dì ricche di selve fiorenti, sono state trasformate in cedui radi scarsamente forniti di matricine od in zone nude, essendo invalsa anche la pessima abitudine (fortunatamente da qualche tempo frenata) di sradicare i castagneti per ridurre il terreno a prato naturale.

Per fortuna, la vecchia Amministrazione forestale corse ai ripari, appena apparve manifesto il pericolo della distruzione dei castagneti, ma le norme allora emanate non furono, forse, rigorosamente osservate, tanto che la Milizia Forestale ha ritenuto necessario ritornare oggi su di esse e dare nuove e più severe disposizioni per una intelligente tutela del patrimonio boschivo. Quindi, le inconsulte distruzioni non saranno più permesse, il che non esclude che non possano concedersi trasformazioni in altre qualità di coltura quando esse abbiano carattere permanente, rispondano a criteri di saggia economia, e assicurino la buona consistenza del suolo ed il regolare deflusso delle acque.

Insomma, mentre non può disconoscersi la ragionevolezza e la utilità di assicurare la materia prima all’industria del tannino che esporta annualmente intorno a 40.000 tonnellate di estratti (la metà circa della produzione nazionale) sembra del pari indispensabile mantenere in piena efficienza i castagneti da frutto, la cui produzione può essere chiamata ad assolvere compiti importanti nel campo dell’alimentazione umana durante i periodi eccezionali della vita del Paese.

 

* * *

 

Ottima è l’impressione che si riceve percorrendo quella parte della Liguria che è ricca del tipo di ceduo misto che ho più sopra menzionato. Al rigoglio della vegetazione si accoppia una produzione notevole che è di certo superiore ai mc. 3-4 per ettaro. Se una osservazione v’è da fare è che la matricinatura non sempre appare opportuna. Anche in questo caso bisogna porre ben chiaro il quesito se debbasi ottenere esclusivamente materiale legnoso da ardere e da carbonizzare, oppure anche assortimenti da opera. Nel primo caso la matricinatura deve essere larghissima, giacché il ceduo – quando non sia tormentato dal pascolo – ha una tale forza riproduttiva spontanea da non aver assolutamente bisogno di affidare la propria conservazione al seme delle riserve. Nel secondo caso invece, converrebbe lasciare in piedi 150 matricine circa di età scalare, scelte fra le piante più adatte e di buona forma; norma questa che non pare sia stata ovunque osservata.

 

image006.jpg

 

NELLA ZONA DEI SERPENTINI DEL NEGRONE (Genova) IN CORSO DI RIMBOSCHIMENTO

 

Lo stesso ragionamento ora fatto è applicabile ai cedui di faggio, la cui utilizzazione segue criteri tecnici non sempre ben chiari e precisi. A mio modo di vedere, nei cedui situati nelle zone più elevate ed impervie, dove tutto il prodotto deve essere carbonizzato, è inutile lasciare molte matricine. Una cinquantina appena sono più che sufficienti ad assicurare la perpetuità del bosco. Se essi sono invece ubicati favorevolmente rispetto alle vie di comunicazione ed il legno può dare assortimenti da lavoro, converrà attenersi ad una matricinatura un po’ più fitta, purché sapientemente scelta. E qui giova chiederci se convenga adottare la matricinatura a gruppi o isolata. La questione non è facile a risolversi ed i tecnici – come solitamente avviene in simili casi – sono divisi in due campi. V’è chi sostiene la convenienza di mantenere le matricine riunite per difenderle dalle bufere, dalle nevi ecc. e per rendere meno sentito l’aduggiamento [ombreggiatura nociva, n.d.r.] del ceduo; altri opinano che meglio corrisponde e giova una matricinatura isolata purché le piante che devono rimanere in piedi siano scelte fra quelle più robuste, slanciate ed aventi una chioma raccolta.

Io credo che entrambi i sistemi abbiano pregi particolari, siano utilmente applicabili e che l’adozione dell’uno o dell’altro dipenda, più che altro, dalle circostanze di fatto. Così, per esempio, non può esservi dubbio che ove non siano da temere danni gravi dal vento e dalla neve, convenga dare la preferenza alla matricinatura isolata. Questo non esclude, naturalmente, l’opportunità del rilascio di qualche bel gruppetto di riserve, a condizione però che ci si trovi di fronte a piante giovani, di bella forma e di sicuro avvenire.

Circa il modo di tagliare il ceduo, pare a me che anche in Liguria tornerebbe utile l’introduzione del sistema a sterzo, largamente in uso in Toscana. È evidentemente un grave errore quello che si commette abbattendo, alla fine del turno, tutti i polloni che si trovano sulla ceppaia, siano essi di dimensioni mercantili o di diametro minore. Il danno economico non può essere negato quando si consideri la ingente massa legnosa che resta inutilizzata sul letto di caduta, e la scomparsa di molte ceppaie per effetto della mancanza dei tirasucchi.

Un’altra ricchezza silvana della Liguria è data dai boschi di pino silvestre e dai lariceti, entrambi diffusi sui contrafforti prealpini della provincia di Imperia. Quando il pascolo lascia le tagliate tranquille, tanto il pino silvestre che il larice si rinnovano abbondantemente, ma mentre al primo si addicono i tagli a sterzo e quindi i boschi da dirado, il secondo difficilmente si rinnova sotto le piante madri. Ad esso conviene assai meglio il taglio raso a striscie o a quinte, nel quale caso la rinnovazione naturale del bosco viene affidata alle piante che fiancheggiano la striscia utilizzata.

A proposito dei lariceti v’è da dire che per il fatto di trovarsi quasi sempre a contatto coi pascoli montani o da essi intersecati, il pascolo delle vaccine durante il periodo della monticazione [alpeggio, n.d.r.], reca danni gravissimi. Proprio di recente ho dovuto constatare le disastrose condizioni in cui si trovano molti boschi di larice dei monti di Imperia e di Cuneo, a cagione del pascolo esercitato senza freno e senza rispetto alcuno il novellame manca quasi ovunque, e dove esiste è talmente mutilato e tormentato dal morso del bestiame, che ogni buon avvenire sembra ormai irrimediabilmente compromesso.

Mi consta che sono già state date severe disposizioni per impedire che lo scempio continui. Auguriamoci che esse valgano a salvare una ricchezza silvana di grandissimo valore la cui funzione economica e protettiva è da tutti riconosciuta.

 

* * *

 

Termino queste mie prime ed incomplete impressioni sulle condizioni silvo-pastorali della Liguria accennando brevemente ai pascoli di monte. Plaghe che possono realmente meritare questo nome si trovano quasi esclusivamente in provincia di Imperia, dove esse hanno una superficie, come ho detto innanzi, di oltre 20.000 ettari. Non so se io sia portato a giudicare un po’ troppo severamente l’attuale stato di cose, ma anche ammessa una certa dose di pessimismo, è indubitato per i pascoli anzidetti, i quali sono quasi tutti concentrati nelle alte valli dell’Arroscia e dell’Argentina, non possono lasciare una favorevole impressione in chi ha l’occhio abituato ai magnifici pascoli di molte nostre piaghe alpine.

Non dirò della cotenna erbosa, quasi ovunque infeltrita e formata dalle più scadenti foraggere, né dell’enorme invasione di rododendri e neppure del modo assolutamente primitivo con cui si lavora il latte. Non casere comode, pulite e dotate di acqua abbondante, ma capanne sudice e ristrette: veri tuguri.

Naturalmente fanno difetto, in modo quasi assoluto: stalle, ricoveri, abbeveratoi, fienili, cisterne, concimaie; insomma tutto quanto può occorrere ad un ragionevole esercizio dell’industria pastorale. E così i redditi unitari sono scarsissimi e più lo saranno in seguito se non interverranno provvedimenti atti a migliorare uno stato di fatto che certo non giova né al Paese né alla Liguria. A onor del vero qualche segno di ravvedimento è in atto; auguriamoci che esso non sia effimero e che rappresenti davvero l’inizio di un salutare periodo di attività redentrice.

 

image007.jpg

 

VALLETTA DEL RIO LEONE [Arenzano, n.d.r.] IN CORSO DI RIMBOSCHIMENTO

 

_______________________________________

 

 

METAMORFOSI DEL FAGGIO

 

Come si fabbrica il

 

carbone

 

Articolo a firma Star, pubblicato sul bollettino n° 5 – Maggio 1930

 

 

Quella del carbone di legna non è industria che fiorisca soltanto in Sardegna.

Anche qui nella nostra Liguria, e negli stessi monti a qualche diecina di chilometri, in linea d’aria, da Genova essa si esercita, più o meno su vasta scala. La Fontanabuona, per esempio, è una delle zone dove i “carbonin” come li chiamano comunemente, sono tutt’altro che rari, per la ragione della esistenza dei faggi che sono precisamente una delle qualità di legname preferito pel carbone casalingo.

Da gli abitanti del luogo esso viene fabbricato interpolatamente alla normale attività della campagna, durante la stagione opportuna, e quando vi è disponibilità della materia prima. Quando cioè gli alberi si trovano nello sviluppo voluto e nell’epoca propizia pel taglio.

A questo proposito è bene mettere in rilievo l’opera salutare che, come altrove, anche nella Fontanabuona viene svolgendo la Milizia Forestale, veramente benemerita del patrimonio silvano del paese. Per merito della Milizia Forestale, alla quale presiedono ufficiali e graduati di provata competenza tecnica, il taglio dei boschi non avviene a vanvera come per il passato, ma è disciplinato seriamente in modo che da esso i boschi stessi abbiano giovamento anziché danno. Oramai, con la fattiva opera di persuasione e di istruzione, e con le necessarie sanzioni nei casi indispensabili, anche nei contadini si è formata la convinzione che vale meglio ricavare, al momento opportuno, ed in equa misura, i prodotti della montagna, che non procedere all’annientamento di un bosco per trarne un guadagno più lauto, ma momentaneo, e che precluderebbe, per l’avvenire, qualsiasi reddito.

In tal modo si tagliano man mano gli alberi vecchi e si lasciano le ceppaie e le “matricine” che daranno col tempo i nuovi grossi alberi. Non solo, ma il taglio deve avvenire secondo determinate norme affinché le ceppaie stesse non marciscano e costituiscano inoltre sempre la fonte della linfa vitale. Così i boschi si conservano nella loro piena efficienza e il taglio degli alberi anziché un male rappresenta un vantaggio per la efficienza del bosco.

I “carbonini” per lo più sono indigeni; ma non è raro il caso che giungano, per far la stagione, anche da altre parte d’Italia, specie dalla Toscana. Essi vivono, si può dire, la vita dell’uomo primitivo, in una baracca posticcia, costruita nei punti strategici, da dove cioè possono essere osservati i caratteristici grossi coni rivestiti di terriccio, sotto i quali si cela la legna in lenta combustione.

 

image008.jpg

 

LA BARACCA DEI “CARBONINI”

 

ln questa baracca che quasi sempre è al ridosso di un muro a secco con le pareti e la porta formate di rami intrecciati, e di fronde, i “carbonini” trascorrono mesi interi, appartati dal mondo, cibandosi di polenta, riso e formaggio, di qualche focaccia e inaffiando il tutto con purissima acqua di fonte.

Essi sono sempre sul “chi vive”, come direbbero i militari di un secolo fa, perché fanno una vera e propria guardia ininterrotta alle diverse “carbonine” in azione, allo scopo di impedire che si determinino delle fiammate che condurrebbero a incendi i quali distruggerebbero in breve il prodotto di tanta fatica. Fuori della baracca la notte uno della squadra è sempre di sentinella e osserva le varie “carbonine” disseminate all’intorno e che appunto dalla baracca devono essere dominate con lo sguardo. Se soffia un po’ di vento e qualche guizzo di fuoco si profila nell’oscurità notturna viene dato immediatamente l’allarme e tutti accorrono per soffocare con la terra vicina il principio dell’incendio. Un po’ di disattenzione, un poco di sonno che prenda l’uomo di fazione bastano a determinare la distruzione completa della “carbonina”.

Vediamo come il carbone si ottiene. Dopo il taglio degli alberi, si fa una selezione tra i grossi tronchi ed i rami che spogliati delle fronde, vengono a loro volta utilizzati.

Tutti sono tagliati in conveniente misura e quindi accatastati in ordine su di un pianoro a forma circolare, già predisposto, sovrapponendo man mano i tronchi, lasciando i più grossi in basso. Nel centro della grande catasta che, come si vede nelle fotografie, ha forma di cono, è lasciato uno spiraglio, una specie di tubo verticale nel quale, al momento opportuno, sarà introdotto un tizzone ardente per comunicare il fuoco alla catasta che viene ricoperta di terra. Intorno a questo manto di terra sono praticati dei fori per dare respiro al fuoco che deve covare lentamente nell’interno.

 

image009.jpg        image010.jpg

 

IL FAGGIO PRONTO PER ESSERE ARSO E LA CATASTA CONICA DI LEGNA CHE VA RICOPERTA DI TERRA

 

image011.jpg

 

LA “CARBONINA” IN PIENA EFFICIENZA

 

La “cottura” dura in genere dai dieci ai quindici giorni, a seconda dell’efficienza della combustione, e dopo un tale periodo la terra che ricopre la catasta viene tolta ed il carbone ripulito delle pietre e delle altre scorie. Quindi il carbone, oramai già perfetto, è ricoperto nuovamente di terra e così tenuto per due giorni affinché perda tutto il calore di cui è impregnato. Una nuova pulitina e il combustibile è pronto per essere posto in commercio. Esso viene messo in sacchi e caricato sui muli che scendono a valle verso i diversi mercati o centri di raccolta.

image012.jpg

 

IL CARBONE IN SACCHI VIENE CARICATO SUI MULI E TRASPORTATO A VALLE

 

Nelle nostre fotografie presentiamo alcuni tipi di carbonai. Il più anziano di essi è un toscano puro sangue; Giuseppe Bartolozzi da Montagnana in provincia di Pistoia; gli sono ai lati un figlio diciasettenne, Salvatore, ed un garzone, Dante. Li vediamo nella regione del monte Caucaso sopra Neirone e precisamente nella località Feja, nei boschi che furono il romitaggio preferito di un vecchio lupo di mare, il compianto capitano Francesco Figari, a circa 1100 metri di altitudine.

Giuseppe Bartolozzi è un rude lavoratore, squisitamente gentile nel tratto, come la lingua della sua terra che insieme a quella dei suoi aiutanti risuona strana in quei monti quasi gelosamente riservati ai loro primitivi abitanti. Il Bartolozzi è uno specialista in materia avendo fatto innumerevoli “stagioni” in Corsica, in Sardegna e nella Fontanabuona dove giunge ininterrottamente da nove anni, e dove è assai popolare. In Sardegna, in anni ormai passati, ha fatto anche la personale conoscenza con i briganti, ma ha portato salva la pelle non solo, ma anche una salute di ferro, che si può davvero dire temprata dalla vita primitiva della montagna. Forse egli deve anche questa sua invidiabile robustezza al culto che ha di San Martino il protettore dei carbonai, perché precisamente a questo Santo si vuole attribuita l’invenzione del carbone.

Un particolare interessante è il seguente: che nei pianori dove è stato confezionato il carbone, a un paio di anni di distanza nascono abbondanti le piantine di fragola; il delizioso frutto di quei monti che, a differenza di quello coltivato nei campi di produzione emana un profumo estasiante, ed è molto più saporito; ciò che dimostra ancora una volta come la natura sia superiore a qualsiasi artificio e offra da sola all’uomo le più squisite primizie.

 

image013.jpg

 

MASTRO BARTOLOZZI E I SUOI DUE AIUTANTI

2024 © Enocibario P.I. 01074300094    Yandex.Metrica