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A COMPAGNA- CHIESA DI SAN GIOVANNI BATTISTA

 

GENOVA E S. GIOVANNI

 

BATTISTA

 

LA DEVOZIONE PER LE SACRE CENERI

 

La parola divina - Cenni danteschi - Omaggi sovrani - Una nobile gara

Curioso divieto - Eventi prodigiosi - La mareggiata del 1640 - Baciccia e Balilla

 

Articolo a firma Riccardo Castelli, pubblicato sul bollettino n° 5 – maggio 1932

 

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Cappella di S. Giovanni Battista in S. Lorenzo (interno) (fot. Noack)

 

Non si dolga S. Giorgio e non creda che sia venuta meno per lui la venerazione dei Genovesi, se, in quest’anno, la Superba celebrerà, con più solenni manifestazioni, la festa dedicata alla Natività del

 

gran Giovanni

Che, sempre santo, il deserto e il martirio

Sofferse.....

 

S. Giorgio è troppo santo e troppo cavaliere per dubitare della fedeltà nostra, di quella fedeltà, di quella devozione per cui i crociati Genovesi, dopo l’espugnazione di Acri, vollero che il glorioso Martire fosse associato alla croce nella bandiera del Comune.

S. Zorzo, deposta per un momento la sacra lancia colla quale egli trafisse il Drago, si unisce a noi, invece, per festeggiare

 

colui che volle viver solo

E che per salti fu tratto al martiro.

 

Ai dì nostri, fortunatamente, la perfida figlia della malvagia Erodiade potrebbe saltare a sua posta, senza pericolo di far perdere la testa a qualcuno, se non forse metaforicamente.

Del resto il culto per il Battista è così antico e tanto diffuso che nulla più. Basti il ricordare – per limitarci alla Liguria – le molte chiese a lui dedicate, in Genova stessa e in numerose parrocchie della diocesi, come Cicagna, Chiavari, Recco, Montoggio, Finalmarina e altre assai.

E ben si comprende che ciò sia per il divin precursore,

 

perch’egli è glorioso e tanto grande

quanto per l’Evangelio v’è aperto.

 

I versi danteschi richiamano le parole stesse del Redentore riferite da S. Matteo: Amen dico vobis, non surrexit inter natos mulierum major Ioanne Baptista!

E nel poema sacro “al quale ha posto mano e cielo e terra” S. Giovanni figura, nella mistica candida rosa, di contra alla Madre di Dio, e sotto di lui i grandi fondatori di ordini religiosi: Francesco, Benedetto ed Agostino.

Onde poté dire il Tommaseo: “Di faccia alla santa tra le donne siede il santo tra gli uomini, padre d’anime a Dio conquistate”. Ed il nostro Alizeri vorrebbe aggiungere che, come Maria pare suggello alla età remota, così il Precursore è principio o esordio alla nuova.

 

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A sinistra: statua di S. Giovanni Battista del Sansovino (nella Cappella di S. Lorenzo) (fot. Noack)

A destra: piatto di agata e calcedonio, che la leggenda vuole sia servito ad offrire la testa del Battista a Salomé (Tesoro di San Lorenzo)

 

Sia lode adunque alla benemerita Associazione per lo sviluppo del turismo ligure ed al gr. uff. Attilio Pozzo, suo illustre presidente, per avere compresa nel programma del “Giugno genovese” la celebrazione della festa di S. Giovanni Battista. E vorremmo che in tale celebrazione fosse compresa – per la parte sacra – la esposizione della cassa contenente le ceneri del Santo patrono, e – per la parte folcloristica – la riproduzione degli antichi festeggiamenti, suono di campane, sparo di artiglierie, sventolio di bandiere, esposizione di arazzi, giuochi pubblici, e poi, alla sera, fantastica illuminazione; il tutto come degna cornice, come coronamento delle solenni funzioni religiose, culminanti nella Processione delle Sacre Ceneri.

E siaci permesso, a questo punto, rievocare un avvenimento che molti ricorderanno e che, or sono più di nove lustri, suscitò nella cittadinanza sincera commozione. Il 20 luglio 1886, essendo arcivescovo di Genova monsignor Salvatore Magnasco, la regina Margherita accompagnata dalla duchessa di Genova, rispettosamente salutata dalla intera cittadinanza, recavasi alla Cattedrale. Assisteva alla celebrazione della Messa e visitava quindi il Tesoro, soffermandosi infine davanti all’altare di S. Giovanni Battista, dove mons. Magnasco presentava le Sacre Reliquie alla Regina che devotamente le baciava. Imperatori e re, papi e cardinali, regine e principesse, grandi della terra, venerarono sempre le Sacre Ceneri del Patrono di Genova.

E così le storie ci parlano di Federico I imperatore (Barbarossa) che, venuto a Genova, nell’anno 1178, con l’imperatrice Beatrice ed Arrigo suo figlio, visitò e adorò le Sacre Ceneri. E prima di lui, ebbe ugualmente a visitarle e adorarle il sommo Pontefice Alessandro III, allorquando fu a Genova, correndo l’anno 1161.

Né va dimenticato Pietro II, re d’Aragona, che, nell’anno 1203, trovandosi in Genova, offri per l’altare di S. Giovanni un bellissimo cavallo, guarnito di tutto punto d’argento.

 

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Antica arca in cui erano serbate le ceneri di S. Giovanni Battista

Cappella di S. Giovanni in S. Lorenzo

 

Leggesi pure che nell’anno 1312 l’imperatore Arrigo VII, re dei Romani, istituì per l’altare del Precursore una cappellania perpetua. Apprendiamo ancora che nell’anno 1244 papa Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna) donò l’altare di trentasei lampade d’argento. Ed è fatta anche menzione di papa Innocenzo VIII (Giambattista Cybo, nobile genovese) che con sua bolla del 2 maggio 1485 concedeva giubileo perpetuo nella luminaria di S. Giovanni Battista.

Ricordano poi i cronisti la visita di Napoleone Bonaparte ed esaltano quella di Vittorio Emanuele II e della angelica sua sposa Maria Adelaide.

Tesoro davvero inestimabile quello che Genova così devotamente venera e conserva. Opera altamente lodevole è quella di far nuovamente risplendere della sua antica luce la festa del Precursore. Fin dall’anno 1925, la grande associazione genovese A Compagna, fra il plauso della cittadinanza e la cordiale adesione delle Autorità, lanciava un primo appello ed oggi plaude alle nuove iniziative, perché l’esaltazione del Battista è anche la rievocazione di una fra le più belle e più espressive tradizioni della Ligure stirpe.

Principalissima tra le feste dedicate al Santo Patrono, è quella del 24 giugno, ossia della Natività. Ma, in passato, ebbero importanza somma anche la Decollazione, ricorrente il 29 agosto (sacro anche a N. S. della Guardia), la Traslazione delle Sacre Reliquie commemorata nella prima domenica dopo la festa dell’Ascensione, e la Processione delle Ceneri solite a celebrarsi nella Domenica in Albis [la domenica successiva a Pasqua, n.d.r.] con festosa solennità.

La celebrazione della Decollazione, forse caduta in disuso. venne ripristinata nell’anno 1463 per ordine del cardinale Paolo Campofregoso arcivescovo e doge, il quale, insieme con gli Anziani del Comune, dispose, per decreto perpetuo, che il giorno 29 di agosto dovesse aversi per sacro, con divieto di qualunque lavoro che fosse proibito nei giorni festivi, e con le multe di legge ai contravventori.

E bene si può dire che, nei tempi più gloriosi della Repubblica, come in quelli più tristi, fu sempre una nobile gara fra la Chiesa e lo Stato, nel tributare onoranze al divino Precursore. È risaputo infatti che nel 1327, benché la Repubblica fosse allora lacerata dalle fazioni, S. Giovanni Battista fu proclamato Patrono, Protettore e Padre dal Comune. Fu ordinato che, a spese pubbliche, fosse fatta un’arca d’argento per riporvi e custodirvi le Sacre Reliquie, e che ogni anno, nella sacra ricorrenza della Natività, ossia il 24 giugno, i Governatori della Repubblica e la cittadinanza tutta dovessero recarsi a visitare le Reliquie, con torce accese e con speciali dimostrazioni di giubilo, offrendo inoltre all’altare un pallio d’oro. 

E perché a tale solennità potesse concorrere liberamente ogni sorta di persone, fu concesso salvacondotto a chiunque venisse a Genova per gli otto giorni precedenti e gli otto seguenti alla festa, valido, tale salvacondotto, per tutto il distretto della città, in modo che tutti e ciascuno, di qualunque parte fossero, potessero liberi e sicuri venire, stare e quindi partire, senza pericolo alcuno.

 

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TERAMO DE DANIELI, SIMONE CALDARA e DONATO DE BARDI

La cassa di S. Giovanni (facciata anteriore) – (Tesoro di S. Lorenzo)

 

Senonché in tanta e così profonda divozione, apparisce strana una certa restrizione a carico del sesso gentile, dovuta forse al tragico ricordo di Erodiade e di Salomè, a meno che non si voglia metterla in relazione col divieto canonico fatto alle donne di entrare in chiesa a capo scoperto.

Lasciando ad altri tale indagine, ricorderemo soltanto che la attuale cappella di S. Giovanni Battista ebbe la prima origine nel 1323; fu rifatta dalle fondamenta nel 1451 e nei secoli successivi venne più volte modificata e arricchita di marmi e di opere d’arte, lavorandovi insigni artisti.

 

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La stessa (facciata posteriore)

 

La prima costruzione, adunque, fu fatta a spese di Oberto e Nicolò Campanari i quali fondarono anche una cappellania con sufficiente dote per un sacerdote. Ed ecco il privilegio che ai due fratelli venne concesso a titolo di premio. Vigeva, in quel tempo, proibizione alle donne, di qualunque condizione si fossero, di entrare nella cappella del Santo, in riguardo alla Santità del luogo. Ai fratelli Campanari venne concesso, per privilegio perpetuo anche per i loro discendenti, che le loro figlie e nuore potessero entrare per ricevere in essa la benedizione nuziale.

E non è da credersi che siffatto privilegio fosse cosa da poco, poiché risulta che papa Innocenzo VIII, di cui è detto sopra, rinnovò divieto alle donne di entrare nella cappella del Santo, sotto pena di scomunica latae sententiae!

Insomma, il culto di S. Giovanni Battista fu grande sempre ed ebbe dalla Chiesa carattere universale. Ricorderemo anzi che, nell’anno 1853, papa Pio IX, abrogate talune feste, volle che fosse mantenuta, in ogni regione, la festa del patrono principale. Fu allora che mons. Charvaz, arcivescovo di Genova; con l’assenso del Governo, dichiarò Patrono Principalissimo di Genova, S. Giovanni Battista.

E Genova lo ebbe sempre carissimo ed alla sua protezione si commise nelle maggiori avversità. Non qui il caso di accennare ai prodigiosi eventi attribuiti alle Sacre Ceneri a sollievo, a salvamento della Repubblica, a riparo di pubbliche sventure.

Ricorderemo soltanto la orribile tempesta dell’8 aprile 1640 e il miracoloso sedarsi, nella descrizione lasciatane da don Agostino Calcagnino, canonico penitenziere di Genova, che ne fu testimonio oculare.

Narra adunque il dotto sacerdote che nel giorno di Pasqua 1640, che venne in quell’anno agli otto di aprile, insorse alla mattina una improvvisa libecciata, così gagliarda, che apportò grandissimo spavento alla città.

 

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La stessa, facciate laterali sinistra e destra

 

Si formò tosto una devota processione che si diresse verso il Molo recando le Sacre Ceneri, le quali furono poste sopra il bastione della porta, mentre i cittadini imploravano la divina clemenza e l’intercessione del Battista.

Ed ecco – scrive il canonico Calcagnino – che, non ancor terminate le orazioni, insorse prima il vento maestro e poco dopo la tramontana espressa, che, respingendo per aria il libeccio e cacciando dalla sua parte onde contra onde, fece vedere uno spettacolo alla città nuovo ed insolito di combattimento. Ma finalmente convenne al libeccio cedere al più possente nemico e dar volta, lasciando il mare oltremodo tranquillato e fuori di pericolo di naufragio. L’improvvisa comparsa del vento, prima, e poi subito della tramontana, fu così evidente ed osservata, non solamente da quelli che erano sopra il bastione, fra i quali ero io medesimo e posso testificarlo di veduta, ma dalla miglior parte della città che a voce universale, confessata anche dai medesimi infedeli che si trovavano sopra alcune navi, fu riconosciuta per miracolosa e per effetto delle Sacrate Reliquie.

In riconoscimento di tanto miracolo, il Senato per Decreto perpetuo ordinò che, per l’avvenire, nella processione delle Ceneri, le Sacre Reliquie fossero portate sulla punta del Molo vecchio e ivi si rendessero solenni grazie alla Divina Provvidenza.

Ordinò anche il Senato che alle Preziosissime Ceneri facessero, in quella occasione, una salve reale tutte le galere, navi ed altri vascelli che si trovassero nel porto e tutti i luoghi forti della città, guerniti – come nota il citato scrittore – di bella e numerosa artiglieria.

Di generazione in generazione, di secolo in secolo, la devozione dei Genovesi per il loro protettore fu sempre viva e costante, tanto che il popolare Baciccia diventò sinonimo di Genovese.

E vien fatto di pensare se non sia stato per celeste decreto che il Sasso di Portoria fosse scagliato da quel giovinetto Balilla che del santo Protettore di Genova portava il nome.

I bimbi d’Italia si chiaman Balilla – e oggi sono legioni, per un’Italia sempre più bella, sempre più grande.

 

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I devoti di S. Pietro

 

Articolo a firma Orlando Grosso, pubblicato sul bollettino n° 6 – settembre 1928

 

 

Ai miei tempi – non sono vecchio, ma posso pur io così cominciare, con molto rimpianto del passato – la stagione dei bagni si iniziava colla festa di S. Pietro, celebrata alla Foce, dai pescatori del borgo, con grande solennità di funzioni religiose, con relativa fiera di banchetti e vendita di reste e canestrelli, di fuochi, di luminarie e di famose mangiate di pesce fritto, inaffiato da un buon vinetto bianco di Polcevera nell’osteria del “Canaio”, del “Delfino”, del “Fede”, del “Dandalin”.

Allora non si conoscevano i tram elettrici e l’automobile. Vi era un solo tram a cavalli che andava su rotaie e riuniva Genova con Pegli. Fu quella una innovazione tanto ardita, che ebbe anch’essa la sua lotta cruenta, la sua canzoncina umoristica e, prima di entrare nell’uso comune, il boicottaggio abituale a tutte le novità... pericolose.

Si veniva alla Foce in “rebellêa”, passando innanzi al Mercato del bestiame di S. Zita dove, attorno alla chiesa, restavano per giornate intere, vitelli, buoi, pacifiche vacche e mandre di pecore che, colla schiena macchiata di rosso, fluttuavano per la piazza errabonde, straripavano nel torrente Bisagno a brucare le magre erbacce nate tra i sassi del greto.

Fra i muggiti e i belati assordanti, dopo i palpeggiamenti abili dei mercanti, partiva per l’ammazzatoio qualche morituro, sotto la pioggia delle randellate e delle bestemmie. Prima di giungere al mare, si aveva una sensazione di Alpe ligure nel borgo di S. Zita.

Si voltava poi in via della Libertà e per piazza del Popolo si giungeva dopo mezz’ora di dondolamento, di rullio, di beccheggio, colla continua paura di essere rovesciati e di rovesciarsi lo stomaco, a S. Pietro della Foce.

Le case dei pescatori, strette da una parte dal Cantiere Odero, addossate alla collina, che separava la spiaggia dalla via Casaregis, ed a quella ora monca e violata, sulla quale la chiesa profila la sua linea seicentesca, si trovano nell’allineamento delle abitazioni, che ancora per pochi anni rimarranno in piedi.

Le case tinte in giallo, in rosso, in rosa tenero, porgevano sul mare con una terrazza pensile, sorretta sulla spiaggia da palafitte e coperta da una tela di vela, al cui riparo si stendevano tavole informi, per le colazioni democratiche.

Il banco del pesce aveva sempre accanto un fornello, con una grossa pentola mantenuta in continuo bollore, ed una padella, dove sempre friggeva l’olio spandendo un grato odore.

Sul banco di marmo a piccoli cumuli, si trovavano i ricci di mare, che ancora muovevano i loro aculei, le ostriche piccole e saporite, i mitili neri, le oratine di scoglio, le sardelle, le acciughe, le triglie d’oro, i sagari e i pesci capponi rosso-bruni, mostruosi, che boccheggiavano gonfiandosi per delle ore intere in una disperata e ridicola agonia.

Le grasse donne fociane offrivano, urlando, ai passanti i pesci, coll’invito caratteristico genovese, che si volge in una lode della propria merce, mentre altre badavano alla frittura, gettando nelle padelle il pesce ancora -guizzante, o toglievano dai canestri i polpi vivi, e con fatica, staccando dal braccio grasso i tentacoli che vi si attardavano tenaci, li gettavano nell’acqua bollente colle aragoste, alle quali si era messa la precauzionale braca del prode Anselmo.

Che odorini di mare e di salino, di scoglio fresco si sentivano passando innanzi a quei banchi, dove colle ostriche era pronto il limone, e nell’interno dell’osteria genovese, si trovava sui tavoli dipinti, in rosso, il gotto di vino bianco e l’amola fiorita, ripiena!

A San Pietro e in certe domeniche estive l’odore di fritto si confondeva con certi profumi di orate che crogiolavano a “zemino” nell’olio profumato di maggiorana, di aglio e di timo e con quelli delicati della “boridda”, che si colorava lentamente di pomodoro.

Ah! che Santo gustoso, S. Pietro! Lo si attendeva tutto l’anno: era la liberazione di tutte le tirannie, di quella dell’abito e della scuola.

Si poteva finalmente rimanere delle ore intere senza pensiero, fra le barche della Foce a guardare i pescatori nel loro lavoro misterioso, mentre sulla spiaggia, fra le reti, oltre ai bambini, vagavano stormi di galline, dominate dal gallo, che in cospetto del mare calmo, gettava il suo silvestre richiamo.

Noi siamo gli ultimi devoti del Santo in questa città che dimentica a poco a poco il suo passato. Non mancavamo mai alla sua festa, quantunque sembrasse allora un enorme viaggio il recarsi da Genova, passando per la Porta Pila, al Borgo dei Pescatori.

Nella notte si accendeva sulla spiaggia fra le barche a secco e le reti accumulate il grande falò. Un falò immenso con al centro un albero verde: un eucalipto profumato. I monelli cantando una nenia andavano attorno per la raccolta della legna, tutta la giornata. Gli uomini portavano al rogo il loro tributo famigliare: casse vecchie, barili sfondati, mobili rotti e tutti i rifiuti gettati dal mare, durante le tempeste.

Nella notte si accendeva la fiammata. Le famiglie dei pescatori, donne e bambini, vi stavano attorno pensose, come ad un rito - stornellava nell’aria l’orchestrina delle campane - come a un sacrificio del mare, mentre i piccoli monelli si denudavano, si gettavano nell’acqua, nuotavano, poi prendevano terra e tutti gocciolanti, urlando, attorno alla fiamma, per rituffarsi e poi sparire nelle tenebre gridando.

 

File:Foce (Genova)-spiaggia e chiesa di san Pietro Ottocento.jpg

 

[foto da Wikipedia, n.d.r.]

 

In una piazzetta sotto una volta di foglie di palma e in un recinto di fronde di castagno, si ballava: ma gli uomini fra loro e le donne colle donne.

Il ballo per i liguri non è la gioia di un amplesso, ma una forma d’arte; vi è un pubblico che critica, giudica, e applaude.

Le coppie gareggiano nella danza e la fioriscono di interpretazioni personali.

Colle teste unite, confondendo il copioso sudore, rossi in volto, cogli occhi fissi, la faccia preoccupata ed un fiore penzolante dalla bocca, o alla brava dall’orecchio, gli uomini col cappello, le donne con una fioritura di nastri, stringendosi, con una mano larga sulla schiena, eseguivano sulle gambe arcuate – ora rigide, ora molli, ora tarde, ora veloci – un balletto tutto ondulazioni e contorcimenti, con piccoli passetti ritmici ora innanzi, ora ugualmente indietro, ora di traverso come i granchi, ora punteggiati da rapidi giri di ballo, da passi a compasso, rotto da corse brevi in tutte le direzioni, con un arresto improvviso ed un inchino.

Nel pubblico assetato passava il venditore di acqua fresca col “mistrà” e di limonate, colle due secchie di ottone lucido, gridando la sua bevanda gelata.

Era questo (non circolavano ancora le gelaterie napoletane ambulanti) l’unico rinfresco possibile e si beveva col bicchiere e col “piron”, facendo passare nella gola riarsa il getto gelido con un leggero gorgoglio, tenendo alta la bottiglia, la testa rovesciata all’indietro, le gambe salde e aperte.

Dall’osteria, piena di luce nella notte, veniva un canto, rotto dal vociare confuso, dal rumore dei bicchieri, velato un poco dal vino che si beveva a fiumi.

Si celebrava una vera festa del mare a San Pietro, perché si avevano molti pregiudizi per la pesca e per le bagnature.

Nessuno osava prendere un bagno prima del giorno del Santo nel timore di annegare e si guardavano come temerari quegli inglesi biondi e rosei che erano nell’acqua tutto l’anno e quando qualche inesperto affogava, il popolo crollando il capo mormorava: “Chi se bagna prima de San Pé, San Pé o ne veu un pe lé”.

I genovesi cominciavano i bagni di mare solo dopo il giorno di San Pietro; si disseminavano nei diversi stabilimenti a seconda del loro stato sociale: la nobiltà e la ricca borghesia sui lidi di Pegli, di Sestri, di Sampierdarena; la piccola borghesia andava alla Strega, alla Foce e il popolino al Molo, dal Carana, dal Cincinina e su tutte le altre spiaggie, coi monelli, che su tutti gli scogli mostravano le gioconde nudità senza foglie di fico.

Le donne del popolo andavano al bagno con delle sottane che si gonfiavano come palloni sull’acqua, mostrando verdastre membra enormi nelle trasparenze marine.

Le dame avevano certi costumi castigati con calzoncini lunghi terminati alla caviglia da un “volant”, con un ricordo simile a quello di certi piccioni e galline pennuti fin sulle zampe.

Le donne del popolo si spogliavano anche sulla spiaggia libera, dietro un lenzuolo tenuto da una compagna per non mostrare le grazie, mentre le dame si dividevano dagli uomini negli stabilimenti, per svestirsi e bagnarsi in sezioni diverse: qualche temeraria osava mescolarsi con gli uomini, ma era molto notata.

È vero però che in mare, lontano dalla spiaggia sassosa, dove all’ombra di un parasole i vecchi e i bimbi sudavano nella sabbia cocente, coloro che erano divisi in terra si potevano riunire sopra la scogliera propizia ad un gentile “flirt”.

Nell’immensità dell’acqua le convenzioni non avevano più forza di legge.

Mentre i due amanti, sui chiari letti di lattuga marina, filavano più dei venti, si vedeva nell’immensità azzurra e verde avanzare faticoso un cappellaccio giallo di paglia, fra tutti gli arnesi possibili per rimanere a galla, il sughero piatto, l’anello del salvagente, le due zucche appiccicate come due enormi mammelle alla schiena. Era la gendarmeria domestica che si avvicinava.

Non mancavano mai le bevute dei buoni milanesi. Sulla spiaggia, attaccati alla corda metallica, con due salvagenti e quattro zucche, andavano periodicamente colle gambe all’aria. La fatica dei bagnini di rimetterli in posizione non aveva tregua.

Erano quelli i tempi della favola. In quindici anni lo sviluppo della città modificò Genova e i genovesi. Fu costruito il Lido, si distrussero il bel borgo peschereccio e le scogliere, e con le tradizioni scomparvero a grado a grado i vecchi genovesi.

Non invano si lamentava nelle ore di riposo, all’ombra di un elevatore del porto, un facchino sardo dicendo: “che cosa volette; de veri Zenezi non ci è piu nissun: al mollo, non ghe semmo ciù che o Parma o Venezia e mi”.

Le industrie navali e siderurgiche avevano alla fine del secolo XIX mutata la ridente riviera occidentale, presso Genova, in uno di quei quartieri popolari delle città manifatturiere, che tanto ricordano i dintorni di Londra e Clichy ed Asnieres, presso Parigi.

Le spiaggie scomparivano, colla costruzione dei cantieri; il cielo era eternamente fumoso, l’aria piena di rumori assordanti, striduli, ritmici di macchine e sul mare galleggiavano avanzi di carbone e larghe macchie di olii pesanti.

Le ville genovesi morivano nella tristezza grigia e il regno di Citera si sfasciava sotto il maglio di Vulcano.

Le Veneri e gli amori con tutto il mondo gaudente ed ammalato erano andate in cerca di nuovo sole, di bellezze e di riposati lidi.

L’agonia della spiaggia occidentale fu breve, perché presto divennero di gran moda i piccoli e democratici stabilimenti della spiaggia di Sturla.

Da Genova a Sturla si andava in “cittadina” oltre che in “tram”.

Si vedevano un’infinità di vetture fare la spola fra la città e la spiaggia; si udiva un continuo tintinnio di campanelli, ed erano “cittadine” col parasole, calessin, “landeaux” padronali e “phaeton” e qualche volta anche, come un ricordo antico, il maestoso tiro a quattro di focosi neri cavalli: un ingombro e una minaccia per i passanti.

Ma fra tutti questi ricordi del secondo impero, arrivò un giorno fra l’imbizzarrire dei cavalli impauriti, una lucente automobile che terribilmente ansava e tremava per un motore imperfetto.

Uccise, il mostro che divora i chilometri, anche quell’unica nostalgia di gioia e di godimento, di donne vedute nelle carrozze, come perle nella conchiglia, di fortunate, floride e giovani madri, con una nidiata di bei piccini rosei, di monumentali balie brianzole ornate di grandi nastri scozzesi, di tutto quel mondo di famiglia, di femminette, d’infanzia, di colori pallidi, di carni tenere, godute in una vettura e nella lentezza di un trotto leggero.

A Sturla convenivano tutte le bellezze genovesi: era la riunione galante, il lido sognato, anche se il sole dardeggiava coloro che non trovavano riparo sotto l’angusta tenda dello stabilimento. Ma con il gran sole fulminava amore. Fortunati i sassi che hanno l’anima di pietra. Il bagno era convertito in un ricevimento.

Dopo la chiusura dei salotti, sospese le conversazioni, sul dorato divano Luigi XV, erano riprese in toilette estiva sugli ardenti ciottoli della spiaggia colle stesse frasi gentili, la stessa schermaglia amorosa, il dono di un cioccolattino.

Sul mare volteggiavano le barche a vela, segnando rotte capricciose attorno alle bagnanti, e presso le gelaterie, giovinotti in abito bianco e signorine vaporose, temperavano gli ardori del sole e del cuore: i bambini attorniavano i venditori ambulanti di biscotti, nocciole tostate e “cannonetti”.

Poi la lunga conversazione terminava: le belle donne apparivano nel loro costume da bagno e il mare, maligno più di un critico, in un attimo faceva e disfaceva la bellezza.

Al tramonto, quando l’ultima luce di fiamma solare guizzava sul mare, si ritornava a Genova e si passava per Albaro che imbruniva. Nel cielo viola saliva la luna pallida e tutt’attorno le case e gli alberi erano avvolti d’azzurro e le fiammelle gialle del gas ardevano senza luce.

Molti, però, innamorati del mare, rimanevano negli alberghi e nelle osterie, in quella della buona “Maxetta”, lodata anche dal Barth, a cenare sotto la luce tremolante e debole delle lampade, che lasciano ai colori tutta la loro intensità, e che creano ombre belle e profonde sui visi femminili e tante passioni accendono nell’anima.

Si viveva sotto il cielo tutto stelle, col cuore traboccante d’amore, vicino alle case immerse nell’oscurità, rotta dalla luce viva delle botteghe aperte, in una solitudine dolce, cullati dalla romanza dell’immancabile cantastorie.

Ma questa felicità non ebbe lunga vita in questa terra che non può lasciar in pace nemmeno i morti.

Il Lido, creato dal più internazionale degli speculatori, aveva distrutto quei piccoli stabilimenti deliziosi nelle insenature di S. Nazaro e di S. Giuliano e rotto anche l’incanto di Sturla. La Marinetta, ritrovo dei pittori, ove composero più quadri, Pennasilico, Nomellini, Gaudenzi, Olivari, e dove tutto il mondo intellettuale conveniva a banchetto, fu per sempre nascosta dal famoso ponte sulle acque.

Il mondo elegante allora si trasportò in parte al Lido, ricostruendovi la nuova colonia balnearia, meno caratteristica della prima, nell’ambiente modernissimo, mentre i più fortunati possessori di automobili vagarono per le bagnature, in ogni parte della riviera, tormentando coll’ansare delle loro potenti macchine, l’eco d’ogni golfetto.

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