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TERLANO: UN SECOLARE MICROCOSMO ENOICO
Fondata nel 1893, Cantina Terlano è oggi famosa in tutto il mondo per i suoi vini bianchi longevi e di ineguagliabile complessità. Dietro al nome “Terlano”, tuttavia, si cela un microcosmo enologico di straordinaria importanza: “Terlano” è infatti sinonimo del paese altoatesino in cui sorge peraltro l’omonima cantina, di una cuvée che ha scritto la storia e di una delle più prestigiose sottozone della DOC Alto Adige.
Il paese di Terlano: virtuosa vocazione di origine vulcanica
Da tempi immemori Terlano è una terra vocata all’agricoltura e alla viticoltura, le cui prime tracce risalgono addirittura all’epoca preromana. Qui sulla sponda orografica sinistra dove l’ampia valle dell’Adige si sviluppa verso Sud-Est, il paese e i vigneti di Terlano si adagiano sui versanti ricchi di porfido quarzifero di origine vulcanica, il quale conferisce ai vini un’incredibile sapidità, complessità e struttura senza eguali. Alcune ricerche geologiche dimostrano infatti come il suolo abbia un contenuto decisamente sopra la media di biossido di silicio e sia allo stesso tempo ricco di minerali secondari.
La DOC Terlano
Oggi Terlano deve la sua fama non solo a Cantina Terlano, fondata nel 1893, bensì anche all’innata vocazione del territorio che ha condotto nel 1975 all’istituzione di una propria e omonima Denominazione di Origine Controllata. All’interno della denominazione DOC Alto Adige, la sottozona Terlano gioca infatti un ruolo da protagonista nell’eccellenza enologica internazionale. I vini di Terlano, dunque, oltre a godere della denominazione DOC Alto Adige recano anche l’appellativo Terlaner grazie alle straordinarie caratteristiche climatiche e geologiche del territorio.
Terlaner: la storica Cuvée
“Terlaner” è anche sinonimo di “Cuvée”. Sin dagli albori, Cantina Terlano porta avanti una tradizione secolare nell’assemblaggio: un’arte che, nel corso degli anni, viene costantemente perfezionata oltrepassando i confini dell’eccellenza. La Cuvée “Terlaner” di Cantina Terlano è a base di Pinot Bianco, Chardonnay e Sauvignon, da cui si ottengono vini complessi e armoniosi. Questo assemblaggio storico, ottenuto dalla miscela delle tre varietà più tradizionali della DOC Terlano, è prodotto sin dalla fondazione della cantina. In passato, fino agli anni ‘50, le uve dei tre vitigni venivano torchiate e vinificate insieme; la tendenza nella vinificazione in purezza si è affermata solo nei decenni successivi. Oggi le cuvée di Cantina Terlano nascono dal blending di varietà, appezzamenti e altitudini diverse, nonché di carichi vinificati in modi differenti. Il Pinot Bianco, la varietà presente in percentuale maggiore, rappresenta la spina dorsale della Cuvée e dona freschezza, mentre lo Chardonnay conferisce morbidezza e calore. Infine, il Sauvignon Blanc aggiunge all’uvaggio le sue raffinate caratteristiche aromatiche.
Terlano nelle sue quattro declinazioni:
Terlaner Cuvée, Nova Domus, Terlaner Rarity 2008, Terlaner I Primo Grande Cuvée
Se la storica Cuvée Terlaner esprime l’essenza più pura di Terlano, le sue declinazioni nei quattro vini iconici della cantina permettono di cogliere vigorose e inedite sfumature.
La versione Riserva della classica Terlaner Cuvée, il Nova Domus, mostra grande struttura e lunghezza. Questo Terlaner Riserva incarna i pregi della sua zona di produzione e mostra una spiccata sapidità, tensione e profondità.
La sapienza e l’arte enoica hanno dato vita ad alcuni dei vini più identitari e prestigiosi di Terlano: tra questi, il Terlaner Rarity 2008, il nuovo vino rarità in edizione limitata lanciato quest’anno sul mercato. I vini Rarity rappresentano la prova tangibile della longevità senza tempo e sono bottiglie speciali che maturano per almeno dieci anni sui lieviti fini all’interno di cisterne d’acciaio. Il Terlaner Rarity, in particolare, dopo 12 mesi sui lieviti in grandi botti di legno ha continuato l'affinamento per altri 11 anni sui lieviti fini in piccoli serbatoi d’acciaio da 2.500 litri, terminando il suo lungo percorso di maturazione dopo un ulteriore anno di invecchiamento in bottiglia.
Infine, dalle premesse di eccellenza della Terlaner Cuvée nasce il Terlaner I Primo Grande Cuvée, sintesi perfetta ed espressione dell’anima più pura di Terlano. In questo vino rivive l’essenza di ogni vitigno: nella Cuvée si utilizzano solamente i migliori frutti selezionati provenienti dai crus più antichi e vocati del territorio, divenendo dunque portavoce del perfetto equilibrio tra vigneto, suolo, annata e meticoloso lavoro artigiano. Il Terlaner I Primo Grande Cuvée, testimone della secolare tradizione dell’assemblaggio di Cantina Terlano, viene imbottigliato soltanto in annate che ne consentono una particolare evoluzione e sviluppo.
DAVISO
DOMENICO CLERICO AL MERANO WINE FESTIVAL VINCE IL PLATINUM AWARD 2021 CON IL BAROLO AEROPLANSERVAJ 2017
Il 7 e 8 novembre nella Sala Kursaal la cantina di Monforte d’Alba si presenta con una selezione di Barolo. Dal cuore delle Langhe Domenico Clerico, il 7 e l’8 novembre, sarà tra i protagonisti della 30° edizione del Merano Wine Festival. La cantina di Monforte d’Alba ha ricevuto il Platinum Award 2021 per il Barolo Aeroplanservaj del Comune di Serralunga d’Alba D.O.C.G 2017, un vino nato dall’incontenibile voglia di cimentarsi in nuove avventure di Domenico, l’”aeroplano selvatico”, così era solito sentirsi chiamare dal padre, che nel 2006 scelse di uscire dal comune di Monforte e sperimentare un nuovo terroir: quello di Serralunga d’Alba.
Nella sala Kursaal inoltre l’azienda piemontese sarà presente con una selezione dei Barolo più rappresentativi dell’identità territoriale: le M.G.A. Pajana Barolo Ginestra D.O.C.G. e Ciabot Mentin Barolo Ginestra D.O.C. G. e il Barolo del Comune di Monforte d’Alba D.O.C.G. Tre espressioni del territorio e dello stile che hanno reso la cantina di Monforte d’Alba celebre nel mondo.
Domenico Clerico è un grande nome del Barolo in Italia e nel mondo. La storia di questa prestigiosa cantina di Monforte d’Alba coincide con la storia di un uomo che ha rivoluzionato il concetto della viticoltura nelle Langhe, animato dal desiderio di sperimentare per raggiungere l’eccellenza che da sempre caratterizza i suoi vini. Domenico Clerico è stato un precursore nello studio del Nebbiolo, ma anche della Barbera D’Alba e del Dolcetto, il vino da cui ha iniziato a costruire il suo sogno già dal 1976. Il suo legame intenso con la terra, il lavoro instancabile tra i filari e le peculiarità dei suoi vigneti hanno costruito negli anni un patrimonio unico. Un’eredità raccolta dalla moglie Giuliana e portata avanti da un team di collaboratori guidato oggi da Oscar Arrivabene, enologo e direttore generale, nell’assoluto rispetto dell’impronta schietta e senza compromessi del suo fondatore. L’azienda oggi conta 21 ettari vitati, per un totale di 110.000 bottiglie prodotte ogni anno e coltiva unicamente i tre vitigni piemontesi per eccellenza, Dolcetto, Barbera e Nebbiolo, esportando in oltre 40 paesi del mondo. La gamma comprende 9 etichette: Visadì Langhe Dolcetto DOC, Trevigne Barbera D’Alba DOC, Capisme-e Langhe Nebbiolo DOC, Arte Langhe Rosso DOC, Barolo DOCG del Comune di Monforte d’Alba, Pajana Barolo DOCG, Ciabot Mentin Barolo DOCG e AereoplanServaj Barolo DOCG, Percristina Barolo DOCG .
Michele Marmino
FOCACCIA DI RECCO IGP MON AMOUR
di Virgilio Pronzati
Foto di Mara Daniela Musante
Luciana e Fabrizio Passano con la loro Focaccia di Recco IGP
La focaccia di Recco col formaggio da più di lustro IGP, vanta un curioso ed interessante passato. Si narra che in tempi lontanissimi la popolazione di Recco si rifugiasse nell’immediato entroterra per sfuggire alle incursioni dei saraceni. La possibilità di disporre d’olio, formaggetta e farina, avrebbe fatto preparare una pasta ripiena di formaggio, cotta su pietre d’ardesia, e chiamata “Focaccia col Formaggio”.
Lucio Bernini mentre presenta la serata Focaccia di Recco IGP “mon amour”
Secondo studi effettuati alla fine degli anni ’90, sembra che questo alimento esistesse già all’epoca della terza crociata. “Era la Pentecoste di rose dell’anno 1189… la cappella dell’Abbazia di San Fruttuoso accoglieva i crociati liguri per un solenne Te Deum prima della partenza della flotta per la Terra Santa… Sulle bianche tovaglie di lino ricamate facevano bella vista i piatti di peltro e di rame, zuppiere di ceramica e di coccio colme di ogni ben di Dio: pagnotte di farro ed orzo impastate con miele, fichi secchi e zibibbo, carpione di pesce, agliata, olive e una focaccia di semola e di giuncata appena rappresa (focaccia col formaggio)…”
La Classica
Alla fine dell’800, quando aprirono a Recco le prime trattorie, la Focaccia col Formaggio veniva proposta solamente nel periodo della celebrazione dei morti. Fu solo agli inizi del novecento che, grazie all’intraprendenza di Manuelina (una ristoratrice del luogo), la focaccia col formaggio vide il suo sviluppo, diventando una golosità apprezzata tutto l’anno. Di quei tempi si ricorda che Guglielmo Marconi e l’Infanta di Spagna passavano da Recco anche per degustare la celebre focaccia locale.
La Gustosa
Da quei tempi ai nostri giorni altri e moltissimi personaggi della cultura, spettacolo e dello sport ne apprezzano la bontà. Lo stesso per il cosiddetto popolino. Oggi è una irrinunciabile golosità che si consuma tutto l’anno sia nei ristoranti che nei forni e botteghe di Recco, Camogli, e Sori e Avegno. La sua consacrazione ufficiale risale all’11 novembre 2015. Per festeggiarne al meglio l’ottenimento dell’Indicazione Geografica Protetta, riconoscimento che la proietta tra i prodotti d’eccellenza d’Europa, il Consorzio scelse la Sala della Grida della Borsa di Genova. Una location carismatica che per anni siglò i momenti più favorevoli dell’economia cittadina.
La Saporita
In quell’occasione, oltre la stampa e operatori commerciali del settore, erano intervenuti Giovanni Toti presidente della Regione, Paolo Odone presidente della Camera di Commercio cittadina e Sonia Viale vice presidente della Regione, i quali hanno sottolineato la straordinaria opera del Consorzio nel valorizzare la ristorazione regionale, proiettandola nell’ambito nazionale con notevole ricaduta d’immagine e economica sul territorio.
La Sfiziosa
L’ultima delle iniziative finalizzate alla valorizzazione della Focaccia di Recco IGP e dedicata alla stampa, si è tenuta lo scorso 22 ottobre al ristorante Alfredo di Recco. Titolo della serata Focaccia di Recco IGP “mon amour” (un vero e proprio amore al primo morso) condotta magistralmente da Lucio e Daniela Bernini, che da ben ventiquattro anni promuovono iniziative di successo sia in campo turistico che gastronomico, in particolare sulla Focaccia di Recco IGP. Con la consueta chiarezza, Lucio Bernini oltre ad elencare gli ingredienti e le fasi di produzione della Focaccia di Recco IGP, ne illustra le norme che la tutelano a livello nazionale e comunitario.
La Dolce ….Mon amour
Disciplinare di produzione, con i rispettivi comuni, gli ingredienti tracciati e certificati, controlli periodici effettuati da parte di un ente delegato dal MIPAF (Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali), sia sulle aziende che sul prodotto finale. Di seguito, lo chef Fabrizio Passano figlio del mitico Alfredo, dopo avere mostrato ai numerosi presenti come si realizza la classica Focaccia di Recco col formaggio IGP, ha deliziato gli ospiti con ben cinque Focacce, di sua creazione. La classica IGP che titola l’Oro di Recco: di raffinata saporosità e armonia. Seguono le focacce gourmet. La gustosa: arricchita con Parma Cotto. Un connubbio che piace non solo ai giovani.
Fabrizio mentre realizza la focaccia fa sfoggio di non comune abilità
La saporita: resa più complessa e intrigante aggiungendo Gorgonzola DOP, pere Kaiser scottate e polvere di noci. La sfiziosa nota come focaccia pizzata: con pomodoro, capperi di Pantelleria, olive taggiasche del Mar Ligure e origano. Un appetitoso effluvio di aromi e sapori mediterranei. E dulcis in fundo La dolce: due sfoglie di focaccia farcite di delicata crema pasticcera, con dadolata di mele saltate al vino rosso e uva sultanina profumata alla cannella. Un ottimo dessert. Personalmente pongo al vertice la classica, in quanto già di straordinaria armonia. Quella col Parma Cotto, è resa più decisa dal salume e da una spiccata sapidità.
Fabrizio mentre sforna la Focaccia di Recco IGP
La saporita, di maggior struttura e persistenza, forse necessità di una cottura a temperatura un pò più elevata. La sfiziosa è una piacevole contaminazione. La dolce già buona, può essere ancor più equilibrata, diminuendo lo zucchero nella crema e, per contrasto, aggiungere un pizzico di sale o di buccia di limone grattugiata. Buono l’abbinamento del vino Golfo del Tigullio-Portofino Doc Bianchetta Genovese 2020 per le salate (con quella al Gorgonzola e pere va bene anche il Golfo del Tigullio-Portofino Ciliegiolo 2020) e il Moscato d’Asti Docg per la versione dolce. Alcune variazioni sul tema: Servita calda con sopra lamelle di tartufo bianco diventerebbe un must. Godibile anche con lamelle di funghi tra le due sfoglie.
Alfredo Passano col figlio Fabrizio, la nipote Fabiola e la nuora Luciana
Non necessariamente ovoli o porcini ma colombine gialla e verde. Tra gli ospiti il sindaco di Recco Carlo Gandolfo e signora, e i giornalisti Egle Pagano, Marco Benvenuto, Mara Daniela Musante, Domenico Papalia e Maria Grazia Maineri. Due parole sul locale. Congeniale per un’ampia fascia di clientela: gourmet, gruppi famigliari e giovani. Uno dei migliori locali col rapporto qualità-prezzo. Ghiotta sorpresa per gli amanti della focaccia e non solo. Aperto da Alfredo Passano nel lontano 1975, il locale è gestito dal 2009 dal figlio Fabrizio con la moglie Luciana.
Ristorante Alfredo
Via San Giovanni Battista 33. Recco
Tel. 0185.74653 - 338.2545277- 347.8415284
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CHEF IN PIZZERIA
La serata evento con Ernst Knam: il primo appuntamento per la seconda edizione del progetto by Pizzeria Salvo
l’iniziativa Chef in Pizzeria, portata avanti in questi ultimi mesi da Pizzeria Salvo, presenta la sua prima serata evento. Volta alla seconda edizione, la serata vedrà all’opera lo Chef Ernst Knam in persona, affianco al noto Pizzaiolo Salvatore Salvo. Fino ad ora le pizze, concordate in precedenza con gli chef, rimanevano in carta per due settimane. Mercoledì 3 novembre invece, si terrà una vera e propria cena degustazione in cui i due chef si confronteranno tra ingredienti e lievitati.
La seconda edizione di Chef in Pizzeria by Pizzeria Salvo ha visto l’alternarsi di molti chef che hanno saputo creare un incontro speciale tra tecniche e sapori nati dalla fusione tra tradizione, ispirazioni, cucine personali e differenti percorsi di formazione, nonchè l’antica tradizione della pizza napoletana.
Peppe Guida (Antica Osteria Nonna Rosa*), Luigi Salomone (Re Santi e Leoni*), Eugenio Boer (Bu:r), Ernesto Iaccarino (Don Alfonso 1890**), Francesco Apreda (Idylio by Apreda*), Roy Caceres (Carnal), Isa Mazzocchi (La Palta*) e Salvatore Bianco (il Comandante del ROMEO Hotel*), sono stati i protagonisti indiscussi di svariati appuntamenti tra la cucina gourmet e il mondo pizza: tante le portate che si sono alternate seguendo quello che erano i gusti e l’impronta stilistica dei principali attori.
Mercoledì 3 novembre il pasticcere Ernst Knam realizzerà una cena esclusiva dedicata all’approccio insolito tra dolce e salato, utilizzando ingredienti ricercati, esclusivi e inusuali; una selezione di materie prime individuate da i Fratelli Salvo ed Ernst Knam che insieme regaleranno un’armonia inaspettata trasformerà le quattro le pizze proposte nel menu, in qualcosa di unico.
La prima proposta è la pizza Afrodite, sensuale, dai profumi tropicali come la vaniglia Tahiti, una spruzzatina di bisque al cioccolato bianco e il gambero viola di Sanremo con burrata di bufala. Passiamo poi ad Era, moglie di Zeus, dal carattere piccante come l’accostamento di cima di rapa, peperoncino di Aleppo, buccia di limone semi candita e tartufo di cioccolato Frau Knam Señorita 72. La serata proseguirà poi con Poseidone, dio dei mari e sovrano di tutti gli oceani, riassunto in una pizza con Anguilla teriyaki, agar agar di barbabietola, panna acida e ganache di cioccolato gianduia, nocciole brinate. Il viaggio tra i sapori si conclude con l’ultima pizza: Apollo, il dio del sole, dai colori forti, estivi e accesi come l’accostamento tra le acciughe del Mar Cantabrico, crema di cedro, mozzarella di bufala, cioccolato Perù Pachiza 70%, pomodorini semi candidi e scarola.
“Dulcis in fundo” non poteva mancare un dolce pensato e realizzato direttamente dello Chef Pâtissier Ernst Knam e dalla sua brigata: “il Mondo di Knam”, una sfera di cioccolato ai tre agrumi (yuzu, limone e mandarino), vellutata di cioccolato fondente Frau Knam Señorita 72 su crumble di cioccolato e sale di Maldon, foglie oro 24 kt, meringhette al grue di cacao salate e salsa al cioccolato con pepe Cumeo. Un finale degno di nota a sugellare una serata all’insegna del gusto, dei sapori e degli abbinamenti innovativi.
Marta Mazzeo
L’ANIMA NASCOSTA DI GENOVA
Articolo a firma Ettore Cozzani, pubblicato sul bollettino n° 1 – gennaio 1931
Incredibile città, Genova! Domandatene a chi la conosce e a chi non la conosce: sentirete: il porto (gremito! selve d’alberi, di antenne, di pennoni – elevatori e gru sempre in moto come ragni – barche, pontoni, chiatte che scivolano senza tregua fra le pareti a picco dei piroscafi – profumi, odori, e fetori, grida, fischi, scrosci di catene, ruggiti e mùgghi di sirene...); Piazza De Ferrari e Via Venti Settembre (che movimento! tram e automobili da non saper come attraversare, la Posta, la Borsa, i negozi: gente che va e viene, ricostruendo nel cervello frizzante i telegrammi, i listini; moltiplicando, dividendo, tanto di percentuale, tanto di spesa viva, tanto d’utile...), e dovunque e sempre, il danaro: dinè! dinè! “Quanto u l’à? Quanto u ghe dà?”
Tranne che a un certo momento una notte (5 Maggio del ’60?) un nervosismo si propaga segretamente per la città, si sente qualche cosa di grave, per l’aria... e a Quarto s’imbarcano i Mille!... Oppure una sera (5 Maggio 1915?) sbarca a Principe un poeta che torna dall’estero, e per una notte intera un ardore mistico brucia il popolo; e la mattina il poeta si reca allo scoglio di Garibaldi trascinandosi dietro tutta la città, e mezza Italia convenuta nella città: c’è sul mare un tumulo rosso: il poeta dice una parola; e... si scopron le tombe si levano i morti; si cacciano tra la folla, la gonfiano come il vento fa del mare, e dopo poche settimane, l’Italia è in guerra, giocando tutto per tutto. Incredibile! La città che dalle calate del porto, da Piazza Caricamento, dalle due stazioni nevrasteniche di vita moderna, si inoltra e nasconde per caruggi quasi bui, salendo scendendo, giravoltando, a ricercarsi in cuore le memorie repubblicane e imperiali (Palazzo San Giorgio, la Casa dei Doria, Porta Soprana) e trova, in un cantuccio, remota da tutto, la casa di Colombo, e nella valle del Bisagno, tra i monti, sempre viva della sua luce, la tomba di Mazzini; si dimentica a un tratto del passato e dell’avvenire, delle memorie e delle macchine, e leva su, (circonvallazioni, gallerie, ascensori stradali) le palazzate l’una sull’altra, grandiose, liete, serene, e dove non può arrivare con gli edifici, arriva con le funicolari, e porta (da Righi, o d’altrove) a respirare aria di collina e grandiosità di orizzonti marini; fin che giunge sulle rapate teste dei suoi gioghi, che qualche antico forte sagoma con la prepotenza delle sue linee architettoniche.
E nelle palazzate, troppo nuove per aver tesori, non ci sarà che gaiezza e tranquillità di vita attuale; ma nei palazzi del piano e nelle ville secentesche e settecentesche verso mare, è un gremito di opere d’arte, specialmente di pitture, dal Cinquecento in su, che possono rivaleggiare con quelle delle famiglie patrizie di Roma o di Firenze: e, se non foss’altro, nei palazzi pubblici, Rosso, Bianco, ci son tante pagine della nostra storia da inorgoglire qualsiasi metropoli.
Ecco perché un giorno Carlo Panseri (un giornalista della vecchia guardia) ha potuto raccontare a proposito di Genova tante e tante di quelle cronache, avventure e storie di cenacoli, di riviste e giornali battaglieri, di prime rappresentazioni e di esposizioni e di concorsi nazionali da far invidia a Milano.
Ecco perché oggi a Genova, oltre a cinque o sei quotidiani politici, alcuni dei quali di grande tiratura, e d’una diffusione che tocca le due Americhe, si pubblicano una rivista di arte, letteratura e pensiero, “Le Opere e i Giorni” di M. M. Martini, e un quindicinale letterario di 8 pagine, “L’indice” di Gino Saviotti.
Ed ecco perché noi non ci siamo meravigliati che, tempo fa, un poeta sia piombato a Genova armato d’un suo poema marino, e in una stagione bruciata, abbia visto raccogliersi nel salone di Pammatone 1300 persone, e durare ad entusiasmarsi per un’ora e mezza sotto un martellare di strofe liriche e drammatiche... “Dinè! Dinè!
Quanti u n’à? Quanto u ghe dà?”.
Sì; ma forse non c’è gente così ricca di fermenti spirituali in tutta la Penisola; o forse il fervore della vita industriale e commerciale è la buona preparazione per i colpi d’ala...
E a chi potesse girar Genova guidato da un invisibile filo d’Arianna, si scoprirebbero maraviglie.
Colui dalla circonvallazione a mare s’affaccerebbe su un cantiere di barche e rimorchiatori che formìcola di scali e d’uomini, ai piedi del molo a cui poco tempo fa era attraccata l’“Elettra” di Marconi: rude lavoro tra fumi di catrame, navi che salpano e s’avviano mugliando, deserto d’onde e di scogli.
Ma lì, sopra una sporgenza della roccia, una cengia marina di pochi metri, dentro una selvetta di pitosfori cupi di verde, c’è un cubo di cemento grigio e nudo: una casa di pescatori? No: è lo studio di Eugenio Baroni: lì dentro è stata vissuta e ancora si vive la passione del Fante, e di lì ogni due anni parte un gruppo eroico per la Biennale di Venezia: quest’anno è la Vittoria: affermazione e simbolo, della nazione e dell’uomo, dell’esercito che ha vinto e della giovinezza che vuol far fruttare nella pace la vittoria. Figura umana e divina insieme, l’adulta Vergine battagliera che scende a volo dall’alto nel momento in cui le fanterie balzano all’assalto e pone il piede sulla trincea, agita e solleva con un gesto potente ma misurato, per un che di sicuro e di sacro ch’è in esso, le compagnie, che intorno a lei cadono decimate, si battono tra i fischi delle mitragliatrici, superano la zona micidiale, e con lei procedono e si affermano oltre la morte.
È una figura che, per anni, ha tormentato l’artista, il quale ne ha cercata l’espressione attraverso maschere, di cui alcune già note ai nostri amici; ma nessuna cosi vibrante, nervosa, sofferente quasi della sua febbre d’azione e di volontà, come quella testa esposta alla ultima Mostra Sindacale Ligure a cui la modellazione dà tanto vigore e la lucentezza del marmo levigato tanto splendore d’anima
Ma se dal mare, e dalla circonvallazione, il pellegrino salga a Carignano e dilunghi per Via degli Archi, il senso della poesia dilegua da lui: due strade sovrapposte; ampie solenni nelle loro curve; e tra l’una e l’altra, sul fianco dell’altura, arcate da sistemazione di strada ferrata, che reggono il terreno: e nelle murature scale scavate a picco, che mozzano il fiato; dovunque quell’odore e sapore e, nell’estate già fervida, quell’ardore di pietra, di calce, di cemento che avvilisce e costringe ogni ala. Ma ai piedi d’uno di questi archi, un’apertura; e dall’apertura, marmi, gessi: è lo studio d’uno scultore d’altre generazioni, che ha dato molte figure funebri a Staglieno; entriamo; attraversiamo una ressa di modelli, di abbozzi di monumenti già belli e pronti (angeli, croci, donne che pregano, spiriti che meditano) e saliamo... Dove? Se non ci son che muri? Su per i muri! scalette, trabiccoli di legno, impalcature crocidanti! penombra, ombra, buio... E adesso?
Adesso si sale ancora, girando su sé stessi come per la gola d’un campanile: ed eccoci su un ballatoio di legno, e di lì in un androne suddiviso da tramezze di legno: una vetrata: tele dipinte, file di impressioncine a colori, un torchio da acqueforti, e grandi fogli già impressi appuntati alle tavole, arrotolati sulle seggiole di paglia. Sono due fratelli: Salvatore Gagliardo e Alberto Helios Gagliardo.
Il primo pittore è in modo particolare ritrattista: il secondo, pittore anche lui, ma più ancora acquafortista.
Due temperamenti.
Il ritrattista potente: a volte in una larga e calda espressione di vita femminile risentite qualche lontano eco di musiche preraffaelliste; a volte, in una nobile e devota rievocazione d’una madre, cercate qualche tocco di vigorosa risolutezza che s’è smarrita – forse – nel tremito ansioso dell’artista; ma la succosa morbidezza della prima testa e il senso di rispettosa realtà della seconda, li trovate riassunti e fusi con una poderosità rara in questa figura quarantottesca di Lio Rubini, che viceversa è un poeta vivo, e presente, autore di liriche sapienti, e di sapienti critiche, e uomo tenace, impetuoso, persino selvaggio nell’espressione della sua acre volontà.
Alberto Helios trae all’acquaforte per amor della schiettezza che a questo genere d’arte richiede il disegno preparatorio e il segno incisivo, e per amor del mistero che l’acido, il quale lavora in segreto, mescola alla lucida visione dell’artista: come un’anima romantica e fantastica che si unisce con un’anima ragionatrice e volitiva.
L’acquaforte non si può giudicare da una riproduzione reticolata su carta liscia come quelle che diamo; il segno s’ammorbidisce, i chiaroscuri si fondono, i rilievi si fanno delicati, si perde il senso della lotta della punta acuta sulla lastra di metallo, e quel mordente vigore dell’acido che determina la profondità del segno.
Tuttavia anche in queste riproduzioni è chiara intanto la potenza della visione, il senso drammatico della composizione, la forza con cui sono espresse attraverso i volti le anime; e, a osservare attentamente, si può anche scorgere la nitidezza del segno libero, senza trucchi, abile a parlar da solo, come è sempre nei grandi incisori.
La primitiva grandiosità del malinconico suonator di cornamusa in cui non contrasta affatto la ricercata complessità del disegno nella pelle lanosa con la faccia fiera e sommaria, è già una nota di vigore non comune; ma il Mosè che porta alle turbe la legge la supera, e sembra già la strofe d’un poema epico; e la porta ad altezze raramente toccate, la mistica grandiosità del Mosè morente in cui la semplicità geniale dei mezzi espressivi aggiunge forza alla poderosità dei rilievi e alla profondità del sentimento e del pensiero.
E adesso (chissà mai per che strade) alla salita della Madonna della Tosse “All’Insegna della Tarasca”: ci si arriva su per una di quelle callaie con in mezzo i mattoni e ai fianchi i sottili gradini di pietra: un gran muro scalcinato, con ciuffi di verde; una porta da Trappisti: bussa, chiama, picchia, fischia, non si vede nessuno.
Ho un compagno pratico e di gamba lesta; mi lascia, aggira la fortezza, penetra per non so dove; ha presa la posizione alle spalle e viene ad aprirmi dal di dentro.
Salgo altre scale; un cortile, alberi: tettoie o case? non si capisce bene.
Entriamo per una porta o per una finestra?
Siamo dentro: pare uno di quegli “uffici notizie” della guerra, piantati un po’ dovunque con mezzi di fortuna: pareti di legno, con qualche vetro per un po’ di luce; paratie di legno anche dentro; tetto basso, seggiole, tavolini d’ogni dimensione, una libreria attaccata al muro e tutta spenzolata da una parte; e... forse è giorno di bucato; come nei chiassetti fragorosi di gridi e di risa della vecchia Genova, anche qui dentro, corde in tutti i sensi tesate fra chiodo e chiodo; e una stenderia di bianco; ma non sono fazzoletti, camice, tovaglioli: è carta!...
È uscito dal torchio a mano un “quartino” un “ottavo” un “sedicesimo” fresco d’inchiostro, e tutte le copie sono stese ad asciugare.
Ma chi sono? Eccoli, i primi (perché il nucleo s’avvia a diventar falange); come si presentano essi stessi, casti e forti, con le loro parole:
“Riccardo Ferrari (classe 1902) di arte pittore; non ha esposto ancora perché vuol prima esser “lui”; adesso lavora con il fratello Ing. Luigi in architettura, e si è specializzato nell’ardua arte dell’affresco.
Nella Tarasca è xilografo, specialmente di figura, ma scrive anche lui le sue buone prose ed i suoi buoni versi”.
“Mimmo Guelfi (classe 1905) di professione, ahinoi, impiegato. È xilografo dall’età della ragione. Nella Tarasca incide xilografie: paesaggi; ma ha pure i suoi chiari versi e le sue buone prose, ed ha il governo e l’alta giurisdizione su tutte le musiche della Tarasca, poiché ne sa comporre di piccole e care, piene di forza e di grazia ingenua e cordiale”.
“Domingo Solari (classe 1902) di professione, (ahinoi ancora!) impiegato. Ha inciso qualche suo legno e qualcuno ne incide, ma nella Tarasca ha la giurisdizione su tutte le lettere, dalla corrispondenza epistolare al sonetto per la “Calandra”.
Questo branco di giovani qui dentro non fa altro: incide legni per ornare edizioni di poesia, compone con caratteri a mano libri di poesia, li stampa al torchio, li cuce e li lega... Quando un giorno scoprimmo che Max Elscamp, nel Belgio, scriveva deliziosi versi, se li ornava di anche più deliziose xilografie, se li stampava in carta a mano, cuciva e rilegava, pensammo a un miracolo che poteva accadere soltanto tra un canale e una casa medievale, al rumor delle pianelle d’una beghina che passa mormorando preghiere sotto la finestra.
Invece, eccoli qui questi argonauti della bella stampa, che mettono alla vela nel cuore di Genova... E le loro incisioni sono spesso primitive, ma sempre ispirate nell’invenzione e piene di sapore nel segno; e i loro versi, schietti e le loro carte, belle; e le loro legature, rudi e forti.
E non che sieno signori! tutto il giorno allo “scagno” o all’ufficio. Soltanto la sera dopo cena, o la domenica si possono adunare.
Stampano; poi si riposano discutendo: poi bevono vino delle Cinque Terre; poi sperano che il magnifico Podestà di Genova trovi per loro qualche stanza d’ospedale o di convento abbandonato, dove ci sia meno umidità e più luce; poi, quando fa troppo caldo, e non ne possono proprio più, s’infilano gli scarponi, pigliano su un po’ di roba nel sacco, e si mettono per i monti, salgono alle nevi e ai ghiacciai, bivaccano sotto la tenda; e anche lassù, tra ghiacci e rupi, inalberano a un bastone o appendono a uno spago teso l’”Insegna della Tarasca”: stelle!.
“Dinè!... Dinè!... Quanti u n’à? Quanto u ghe dà...”
Non è allora tutto qui.
Buona, grande, ricca Genova: terra di mistici e d’eroi, di poeti e di navigatori tutta gente che mira lontano e in alto, e non si stanca e non si piega.
Caratteristiche del popolo ligure
Aspetti di vita economica, sociale, morale e politica
Articolo a firma Mario De Marco, pubblicato sul bollettino n° 8 – agosto 1930
Se l’intelligenza di un popolo si giudicasse soltanto dalla sua capacità costruttrice e della potenza economica, il popolo ligure guadagnerebbe sicuramente il primato, non solo nei confronti delle altre popolazioni italiane, ma di quelle d’Europa.
Ma il nostro popolo ha saputo affermarsi non solo nel campo economico, ma anche in quello morale, sociale e politico, guadagnandosi l’ammirazione più sincera ed entusiasta.
E noi, nel ricordare tali nobili conquiste, sentiamo di compiere un preciso dovere, perché è bene che la stampa, dal campo puramente informativo, passi qualche volta a quello dell’azione diretta e valorizzatrice.
I liguri sono dotati di uno spirito d’iniziativa che non trova riscontro altrove, e, al tempo stesso, di un equilibrio, che li rende ammirevoli.
Individualisti per eccellenza – perché soltanto l’intraprendenza individuale è fautrice di grandi cose – i liguri sanno, ove occorra, abdicare a questa caratteristica personale per partecipare a manifestazioni collettive, dove si delinea il loro naturale buon senso.
Così vediamo il grande capitano di industria, che quasi sembrerebbe escluso, per la sua elevata posizione, dalla comunanza con gli altri uomini, partecipare a forme di vita sociale e politica dove la personalità scompare per lasciar posto alla massa anonima e uniforme.
Nelle associazioni egli porta il contributo della sua esperienza personale, ponendolo cosi al servizio della collettività, che se ne avvantaggia in modo eccezionale; nella politica, quello della sua saggezza; nelle opere benefiche, quello delle sue finanze.
INTRAPRENDENZA E SOLIDARIETÀ.
Molti economisti e sociologi vorrebbero scomparisse lo spirito di intraprendenza individuale, perché, a loro giudizio, individualismo e bestiale egoismo sarebbero la stessa cosa; e si affliggono quando vedono sorgere giganteschi opifici, alla cui testa sta un solo capo, sia pure avveduto ed intelligente. Essi non credono capace il singolo di una valutazione imparziale della propria attività, di un processo di autocritica, di un senso di altruismo. Mentre noi in Liguria assistiamo allo sviluppo di aziende industriali e commerciali, dovuto alla perseveranza di un solo uomo, che sa contemperare il proprio interesse con quello delle maestranze e della Patria.
D’altro lato le classi lavoratrici – noi siamo contrari alla suddivisione degli uomini in classi, perché gli uomini hanno tutti una personalità che va rispettata, al disopra degli interessi – sanno unire alla laboriosità, sempre esemplare, un senso di comprensione che le rende meritevoli di appoggio.
Ecco, per conseguenza, l’istituzione di scuole, l’elargizione di aiuti morali e finanziari, gli impulsi ad una vasta opera di elevazione culturale a mezzo di sane letture e di conferenze. Spazioso campo, dove l’attività spirituale dei liguri ha modo di esercitarsi in omaggio all’antica sentenza che un popolo, per essere grande, non deve conoscere l’ignoranza e la miseria.
Il Fascismo ha indubbiamente trovato, nella nostra Liguria, i più vivi consensi perché ha saputo interpretare il pensiero della popolazione, dando precise leggi al lavoro, vasti appoggi alla cultura, un sano indirizzo alla vita politica. Così i liguri hanno modo di esplicare, senza ostacoli, la loro attività in tutti i campi e di consolidare la loro posizione veramente privilegiata.
SVILUPPO DEI TRAFFICI E DOTI MORALI.
La Liguria, infatti, sta acquistando importanza come centro vitale dell’intera Nazione. Il crescente traffico, col nord Europa, col Mediterraneo – dove sostiene con fermezza la concorrenza col porto di Marsiglia – i rapporti commerciali col Piemonte e la Lombardia – l’influsso morale che esercita sullo spirito patriottico del popolo italiano – l’hanno posta al primo piano nel novero dei grandi centri commerciali del nostro Paese.
Senza dubbio l’industria, specie quella navale; le rimesse degli emigrati, che, nel Brasile e nell’Argentina, hanno creato potenti colonie; la ricchezza del suolo, celebre per la produzione degli ortaggi e dei fiori; l’ubertosità delle colline, inargentate dagli olivi e solcate dai lieti filari delle viti; la infaticabile tenacia, la parsimonia, l’ onestà delle maestranze industriali e delle masse agricole, vere creatrici di potenza, sono altrettanti fattori di benessere collettivo, dai quali la vita del popolo italiano non può fare astrazione.
I liguri, sono dei veri e propri eroi dell’ardimento e del sacrificio. Giovanissimi, si recano nelle Americhe e non tornano in Patria se non quando la face della vita sta per spegnersi, e nella mente stanca passano, in alterna vicenda, il ricordo del passato, pieno d’ansie, di lotte, di dolori, e la speranza di un dolce, meritato periodo di riposo.
Certo, il ligure non rifugge alla lotta, anzi si espone al pericolo quando un ideale superiore lo guida: egli va nelle Americhe quasi a compiere una missione, un’opera di civiltà. Le colonie dei liguri sono quant’altro mai bene organizzate se si deve credere al racconto dei reduci e alle statistiche delle rimesse di denaro.
Gli emigrati della nostra Liguria sanno imporsi una vita che non esito a definire spartana, e, se in tal modo raggiungono una posizione elevata conservano quel senso di solidarietà per i loro simili rimasti in basso che li distingue tra gli altri emigrati. Il cuore e la tenacia: ecco le virtù dei forti successori di Colombo.
Il nostro popolo è buono al punto – dicono i maligni – da sembrare gonzo. E portano l’esempio di grandi industriali, impresari, uomini d’affari, che avrebbero scoperto sul versante ligure il leggendario filone d’oro e si sarebbero arricchiti alle spalle degli abitanti.
Certamente la nostra regione si presta ad un’attività duratura, serena e proficua, non solo per la ricchezza del suolo, la vastità dei traffici ed altre infinite risorse, ma anche per la cortese ospitalità delle popolazioni. Ma non può essere vera l’accusa di dabbenaggine, perché, come dimostrano le potenti creazioni dei nostri uomini d’affari, sulla nostra terra si conosce la via della bontà, ma anche quella dell’avvedutezza e del buon senso.
Il ligure ama la vita tranquilla: rifugge cioè da quelle manifestazioni d’entusiasmo collettivo, che sono caratteristica dei popoli meridionali. Esso sa imporsi un freno anche nei momenti più burrascosi e nei casi più imprevisti, ponderando bene il pro e il contro prima di agire. Non si lascia in tutti i casi guidare dagli avvenimenti, anzi li piega alla sua volontà. Piegare la realtà alla volontà è il motto delle nostre popolazioni.
In Liguria, per conseguenza, non si determinano crisi economiche o politiche di vasta portata. Mentre altrove l’operaio disoccupato costituisce una preoccupazione per la società, nella quale, spesso, vede un nemico, da noi sa far tesoro di quello spirito di adattamento che è proprio dei liguri e trova così modo di attraversare il difficile periodo.
D’altra parte, dirigenti politici e capi di industria o di organismi bancari sanno apprestare lavori di lunga durata, come ponti, banchine, acquedotti, laghi artificiali, edifici d’ogni sorta, per alleviare la disoccupazione e favorire lo sviluppo della piccola industria.
L’agricoltura è florida, perché la nostra campagna, ricca d’olive e di vigneti, dà un prodotto scelto ed abbondante. Nel campo edilizio, grandiose costruzioni si sono susseguite con grande rapidità dando lavoro a migliaia di operai. I Cantieri sono in piena attività e ricevono ordinazioni anche dall’estero. Il porto di Genova mantiene il suo primato, anche perché funge da polmone per le regioni italiane del retroterra, dove l’industria richiede enormi quantità di materie prime.
Abbiamo voluto compiere quest’opera di difesa della nostra gente, guidati dal più schietto disinteresse, perché è utile al suo avvenire l’esposizione di tanti pregi morali, di così moderne conquiste, della sua grande laboriosità.
Le persone di servizio
Articolo a firma G. Mario Faggioni, pubblicato sul bollettmo n° 5 – Maggio 1929
Quando viveva Zita e non era ancora in conto di Santa, i lavori casalinghi se li trovava molto spesso bell’e fatti senza che ci mettesse mano.
La storia racconta che quando la Santa s’attardava a pregare in chiesa, i padroni non avevano di che lamentarsi, perché i lavori casalinghi non erano in arretrato e la cena era servita sempre puntualmente senza che Zita l’avesse preparata.
Non so se le domestiche di oggi ne sappiano qualche cosa... Ma non credo, perché siamo così lontani dal carattere della Santa che c’è da credere che le domestiche di oggi ne sappiano, invece, più una del diavolo.
Ritengo anzi che di sante nelle domestiche ce ne sia stata una sola, e le stesse fantesche non vogliono credere a S. Zita e ricorrono alla protezione di qualunque santo piuttosto che alla domestica miracolosa.
È un fatto che oggi, nessuna domestica mette le radici in una casa. Vanno sempre cercando il meglio che poi si riduce alla fortunata occasione di trovare il padroncino innamorato, o il padrone che trova migliore la cameriera della padrona.
Son passati i beati tempi delle domestiche che crescevano le famiglie di sette ed anche dodici figli.
Le domestiche dei nostri nonni, accumulando salarii, venivano a formarsi un gruzzoletto che chiamavano «motto» e che tenevano nascosto in una calza dentro il pagliericcio.
Economie ch’erano soltanto toccate in caso di malattia e che garantivano una vecchiaia vegeta e dignitosa, coll’aiuto dei figli dei vecchi padroni che andavano spesso a visitarle nei ricoveri, portando qualche cosa che serviva a rinsaldare i vincoli non più fra padrone e servitore, ma fra amici ed amici.
Erano visite piene di nostalgia e di rimpianto, perché il padroncino, fatto uomo, vedeva nella vecchia domestica la gioventù passata e riandava i ricordi della casa paterna che non esisteva più.
Succedeva spesso che se le padroncine restavano zitelle, l’unico conforto era quello della domestica più vecchia di loro, che faceva da padrona di casa, conservando le tradizioni più vecchie delle poltrone del salottino, delle tende di seta stinte dal tempo e delle campane a vetro sopra la consolle con entro l’orologio, o l’abitino di una santa, o il presepio, fiancheggiato dai tradizionali candelabri stile impero.
Credo che la storia non ne parli, ma per ricordi personali lasciati dai miei vecchi, doveva essere così la servitù della borghesia; della vecchia borghesia onesta, patriarcale e laboriosa del secolo scorso.
Venne poi il secolo XX diviso in due grandi epoche: prima e dopo la guerra.
Prima della guerra, se le donne di servizio cominciavano a voler fare la signora, non pensavano certamente di arrivare al punto di portare le calze di seta e i capelli tagliati alla garçonne come nel dopo guerra.
Ritornando al periodo dell’ante guerra, quando i giovanotti fumavano un sigaro alla domenica, il convegno delle donne di servizio era piazza di Ponticello.
E vi andavano di domenica vestite di bordatto, col fazzoletto al collo.
C’era il caporalino di fanteria con bottoni lucidi, le ghette bianche e il kepì colla treccetta in segno di festa; c’erano i compaesani scesi in città per fare gli arrotini, i venditori di scope, di tavolini e portavasi, gli aggiusta paracqua... C’erano anche gli spazzacamini... Portavano il cappello all’indietro per far vedere il ciuffo ricciuto e la casacca di fustagno profumata ancora di fieno.
In piazza Ponticello respiravano un po’ d’aria del loro paese e la parlata nel loro dialetto arrivava al cuore con una puntata di nostalgia.
Non c’era verso che scantonassero; mentre ora si sono urbanizzate e pensano di tornare al loro paese cittadine.
La servitù dell’aristocrazia doveva essere alquanto differente da quella della borghesia di allora e dei ricchi e nuovi ricchi di adesso.
I palazzi padronali delle vecchie contrade di Genova: via Assarotti, via Roma, le strade, chiamate per antonomasia, Nuove; le ville di Albaro, della Valpolcevera, della Valbisagno, lasciano l’impressione di quello che dovevano essere le relazioni fra padrone e servitore.
L’abitazione dei padroni aveva le finestre spaziose e gli ambienti arieggiati.
L’abitazione della servitù era sopra a quella dei padroni colle finestre basse e le stanzette distribuite ed arredate secondo il rango del servizio.
Non nego che ci fosse anche allora il pateracchio col maggiordomo, o il cuoco, o il portiere, o il cocchiere; ma erano cose che facevano lontano dagli occhi dei padroni e nei loro appartamenti privati.
Il maggiordomo, il portiere, il cocchiere, i servitori portavano la livrea; le domestiche, le cuffiette e i grembiali a pizzo.
E c’era la pettinatrice, la guardarobiera, la lavandaia...
Dalla topografia di un palazzo del XIII secolo notiamo molto bene com’era distribuita l’abitazione della servitù e quali ne erano le attribuzioni.
Lo scagnetto del signor era annesso alla casa, ed era precisamente situato al primo piano alla sala di ricevimento, alla camera del capo della sala e alle camere con retrato per ospiti.
Poi venivano i mezzanini esclusivamente destinati alle persone di servizio. Vi erano le camere de li staffieri, il bagno, la camera du barbero, del maestro de caza e delle lavandare.
Al piano superiore la camera della signora, la guardacamera, la saletta delle dame, aristocraticamente chiamata gineceo; mentre quella degli uomini era chiamata con parola meno aristocratica, ma più misteriosa, andronico.
All’ultimo piano vi erano poi le camere con torchio di tetto, cusina, lo forno e la camera.
Come vedete, in una casa di allora, vi era tanto d’avere impiegato un esercito di servizio e credo, che i pettegolezzi e le beghe non arrivassero ai padroni, bastando il maestro de caza a mettere le cose a posto in caso di frangente...